martedì 17 marzo 2009
Il memoriale di un testimone rimette in gioco quel che è stato sempre negato: la richiesta nazista ai colpevoli di costituirsi Il diario inedito dell’antifascista dottor Vittorio Claudi, che ospitò nella sua clinica una vittima delle Ardeatine.
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«Fosse Ardeatine sono due parole che suonano al mio orecchio e credo al­l’orecchio di tutti gli Italiani come due parole sacre». È il passo d’una lettera inedita del 19 ottobre 1944, scritta dalla sorella minore di un fu­cilato, il maggiore Ayroldi, alla so­rella di chi lo aveva tenuto nascosto. La lettera, insieme ad altra docu­mentazione storica, emerge in oc­casione dei 65 anni dalla strage di via Rasella e dalla rappresaglia del­le Fosse Ardeatine dalla Fondazione Claudi, dove è conservata; e con­sente qualche messa a fuoco su par­ticolari non irrilevanti di quelle cir­costanze su cui del resto (addirittu­ra a partire dal numero dei morti complessivi) non tutto è chiaro. La famiglia Claudi è originaria di San Severino Marche; Adolfo, farmaci­sta, aveva inventato una lozione u­tile a curare i dolori sciatici, fece for­tuna e si trasferì a Roma alla fine de­gli anni ’30, dove addirittura la fa­miglia poté avviare una clinica, «Vil­la Bianca Maria» in via Guido d’A­rezzo, mentre i due figli maschi stu­diavano aspirando ad alti traguardi: Claudio, già allievo della Normale di Pisa, nella classe di Lettere (subito affascinato da Capitini), da cui però era stato espulso per indisciplina, fi­nisce gli studi a Firenze, ammalan­dosi poi gravemente ma formando comunque nel dopoguerra un ce­nacolo letterario e artistico di prim’ordine nella casa di famiglia a Roma; Vittorio, studente di Medici­na a Roma dal 1939. Famiglia antifascista; già il padre, nella provincia marchigiana, aveva subìto i controlli delle locali sezioni del Fascio; Vittorio fu controllato più volte dalla polizia. Con il collasso politico- militare dello Stato, nel 1943, la gestione d’una clinica pri­vata nella capitale acquisisce un va­lore aggiunto straordinario. Pun­tualmente infatti – mentre il cugino dei due fratelli, Tonio Clau­di, diventa nelle Marche un leggendario capo partigia­no – «Villa Bianca Maria» di­viene un ricovero di parti­giani ed ebrei «segnalati da un certo monsignor Monti­ni ». A darci il quadro vivo e tra­gico di quei mesi è un me­moriale inedito di Vittorio Claudi (morto nel 2006) che, come studente di Medicina, contri­buiva alla gestione della clinica. Le sue pagine contengono osservazio­ni sparse, spesso divaganti tra lette­ratura, arte, ricordi privati, tra cui s’affaccia il comandante Ayroldi con altri ufficiali che costituirono il pri­mo nucleo della resistenza romana, agli ordini del colonnello Monteze­molo (parimenti fucilato alle Fosse Ardeatine). In quella clinica Ayroldi venne «ricoverato» con piena con­sapevolezza del suo ruolo da parte dei vertici amministrativi e del per­sonale medico (addirittura si sotto­pose a uno strumentale intervento di appendicectomia). «Ayroldi, l’uomo più coraggioso e sorridente che mi sia stato dato di incontrare», lasciava nottetempo la clinica e vi rientrava furtivamente; «Era diventato ufficiale dalla gavet­ta. Perduto il padre in giovane età, doveva mantenere la madre e un nu­golo di sorelline. Allora poteva ave- re 33 anni, era maggiore dello Stato Maggiore; nelle formazioni bado­gliane – lo sapemmo dopo – era il vice-comandante della zona Castelli e Lazio sud. Ma una sera (aveva det­to che sarebbe tornato) al termine del coprifuoco ancora non c’era»; tre quarti d’ora dopo, la sua stanza ven­ne prudentemente «ripulita» da tut­to ciò che poteva essere compro­mettente; vi si rinvennero molte banconote « e un notes semplice­mente esplosivo dove erano anno­tate tutte le elargizioni ricevute(…). Quel notes fu fatto a pezzettini e, con più scarichi, inghiottito dalle cloa­che di Roma». Dopo giorni di assenza che denun­ciavano il peggio, giunse alla clinica un uomo che disse «di essere un mu­ratore che lavorava in via Tasso, che aveva avuto da un prigioniero que­sto biglietto». Il sospetto di essere davanti a un agente provocatore av­volse tutti: «La descrizione che da­va di colui che avrebbe dovuto es­sere Ayroldi non corrispondeva. Il messaggio, scritto sul bordo di un pezzetto di giornale clandestino, Giustizia e libertà aveva una calli­grafia incerta a lapis che non ci sem­brava, a memoria, quella di Ayroldi (…). Il messaggio, di poche parole, era di non preoccuparsi, che stava bene».Circostanze che imponevano l’evasività: «Ci si comportò anche noi (io e mamma) nella maniera più ambigua e non compromettente». In realtà Ayroldi veniva sottoposto a interrogatori e torture a Via Tasso; confessò la versione già concordata con la clinica: vi era stato ricovera­to per un’operazione di appendici­te. A «Villa Bianca Maria» giunsero le SS. Cominciò l’interrogatorio del personale e la « versione ufficiale » resse: «Per recuperare la stanza vuo­fucilati, ta abbiamo messo nella sua valigia le sue robe. Anzi la sua valigia è in questo armadio. Le domande dei tre erano martellanti, mentre scuciva­no i vestiti, sfibravano la valigia alla ricerca di elementi». Il «colloquio» s’era svolto nella direzione della cli­nica; « se appena avessero messo fuori il muso dalla Direzione e fos­sero entrati in qualche stanza sa­rebbe stata un’ecatombe»: vi erano ricoverati una ventina di ebrei. «Dovevano attribuire molta impor­tanza ad Ayroldi. Ma non vennero più. Era il 23 marzo e in quelle stes­se ore avveniva l’attentato di Via Ra­sella. Ayroldi fu incluso nei 320 fu­cilati. (…). Dopo un po’, nascon­demmo ancora qualche altro ebreo, sempre segnalatoci da Montini». 320 scrive Claudi; in un primo momento sembrava infatti che i morti altoatesini del battaglione Bo­zen dilaniati dall’attentato gappista fossero 32. «Di Ayroldi – così Claudi avrebbe concluso questa prima par­te del suo memoriale – non ci rima­ne che una foto segnaletica e la cor­da che legava le sue mani, sporca di terra, consegnataci da patrioti del Cln, e che mia madre ha conserva­to come una reliquia» (questa cor­da fu così cara a Vittorio che la com­pagna, Ursula Magura, ha voluto gli fosse inserita nella bara). La certificazione partigiana, inte­stata « Comando raggruppamenti patrioti Italia centrale. Raggruppa­mento Castelli - Lazio sud», dava at­to alla clinica «Bianca Maria», alla proprietaria Anna Claudi, al diret­tore dottor Leonardo Valletti, d’aver « collaborato tangibilmente con questo Comando. Ha ospitato per vari mesi il Magg. Antonio Ayroldi (fucilato dai nazisti il 23 marzo), pur conoscendo l’attività clandestina che questi svolgeva. Ha offerto gra­tis il ricovero e la cura di altri ufficiali, tra cui il Ten. Col. Rossi Gino (fuci­lato il 2 febbraio) e il Cap. Pratesi, anch’essi facenti parte del fronte clandestino. In più il dottor Valletti, direttore della Clinica ha offerto gra­tis la sua opera professionale a be­neficio del personale e dell’organiz­zazione. Merita pieno riconosci­mento. Dal novembre 1943 al giu­gno 1944». Poi, nel memoriale di Vittorio Clau­di, un lampo: «Io ricordo perfetta­mente un manifesto affisso a Piaz­za Verdi, di fronte al Poligrafico (…) che recava tra due bande nere, una sopra e una sotto, l’avvertimento che qualora l’autore ( o gli autori) dell’attentato non si fosse presenta­to, ci sarebbe stata l’esecuzione di 10 uomini per ogni soldato tedesco, secondo la legge di guerra tedesca». Una fonte non sospetta dunque ri­mette in gioco quel che è stato sem­pre graniticamente negato da auto­ri e mandanti dell’attentato di via Rasella: ovvero l’esistenza del ma­nifesto, in base al quale la respon­sabilità dei partigiani sarebbe più pesante. (1. continua)
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