giovedì 24 marzo 2011
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Domani interverrà alla Sorbona nell’ambito del Cortile dei gentili che si apre oggi nella città dei Lumi. Julia Kristeva, scrittrice, linguista e psicoanalista franco-bulgara, chiede agli «amici laici» di «non aver paura della religione», capace di fecondare la cultura umanista «secolare». Perché il cristianesimo ha forgiato - insieme ad altre tradizioni - l’Europa e va recuperato il «filo interrotto della tradizione», come scriveva Hannah Arendt.Nel libro «Questo incredibile bisogno di credere» lei scrive che il suo umanesimo «non è contrario alle religioni e nemmeno d’accordo con esse». Quali gli aspetti fondamentali di tale posizione?«Ci troviamo in un periodo in cui il dialogo tra cristiani e umanisti è molto importante. Niente facilita tale confronto: entrambe queste comunità sono in crisi di identità, risultano vulnerabili e hanno difficoltà con i propri interlocutori. Per me questo scambio è assolutamente necessario per far fronte alla crisi economica e politica attuale. Anzitutto, va capito cosa intendo per umanesimo. Mi riferisco a qualcosa di separato dalla religione, che nasce con il Rinascimento il Erasmo, attraversa l’Illuminismo con Rousseau e arriva fino a noi, ad esempio nella psicoanalisi. Rappresenta quello che Hannah Arendt e Alexis de Tocqueville chiamavano "il filo interrotto della tradizione". Questo processo è irreversibile e oggi si confronta con il rischio della libertà, dell’individualità estrema e delle passioni liberate fino in fondo. Ma ci porta alla necessità di rileggere la nostra tradizione "interrotta", perché qualcosa è andato perso». Dunque anche l’umanesimo senza fede ha bisogno della religione?«L’umanesimo deve trovare una ricchezza propria più profonda e un rapporto nuovo con i sistemi morali. Personalmente, questo significa un confronto con il cattolicesimo con cui è possibile rifondare il mio stesso illuminismo. I nuovi fenomeni moderni della questione femminile, dell’infanzia, dei giovani, pongono il problema di un nuovo rapporto con l’esperienza religiosa, ad esempio nella preghiera. Questo incontro non deve portare ad una semplice "grande fraternità" tra umanesimo e religioni, bensì alla rifondazione di tutta una tradizione. Di qui la necessità che anche le fedi, di solito dogmatiche, siano capaci di mettersi in gioco». Durante una conferenza a Notre Dame lei ha affermato che il cristianesimo ha praticato una rivoluzione nei confronti della sofferenza. Alla religione cristiana si rimprovera spesso un dolorismo anti-umano …«Penso che il cristianesimo, soprattutto nella sua pratica, sia stato un’innovazione nella storia della comprensione verso il dolore. Secondo il cristiano la sofferenza non costituisce una sconfitta dell’uomo né causa un’esclusione dalla società del sofferente. Il dolore non costituisce una diminuzione dell’uomo né lo rende "meno uomo". Anzi: diventa la strada per arrivare a Dio. Cristo, soffrendo, manifesta Dio stesso. L’essere umano che patisce diventa degno di accompagnamento e rispetto. Di qui si aprono due strade: da un lato un certo dolorismo che porta ad eccessi (Nietzsche lo ha chiamato "vittimistico", oggi vien definito "cristianesimo bionegativo"). Dall’altro troviamo il cristianesimo trionfante che davanti al dolore fa scattare la compassione verso l’altro: è l’accompagnamento della carità. Succede nella vicinanza al povero, all’emarginato, al disabile. E di fronte alla deregulation morale del mondo degli show e del capitalismo, che legge tutto in senso produttivo, rischiamo di perdere il senso della vulnerabilità della persona. Abbiamo bisogno della tenerezza cristiana e dobbiamo far leva sul cristianesimo per sconfiggere quel mondo che vuole negare il dolore». Quali esempi vede di questa «tenerezza» cristiana?«Penso a certe organizzazioni cristiane e cattoliche, che vengono in aiuto agli ultimi dove lo Stato non arriva. Oggi la figura che più mi sembra significativa è Jean Vanier. Per un anno ho intrattenuto con lui una corrispondenza sulla nostra esperienza del dolore, in particolare dell’handicap, a tutti i livelli: politico, sociale, intellettuale ed esistenziale. Jean è un esempio unico: ha fondato 140 comunità della sua Arche. Prolunga quello che San Francesco aveva fatto secoli fa in Italia.» Lei interverrà al Cortile dei gentili. Come valuta questa iniziativa della Chiesa?«È molto bella, sebbene non conosca a quali risultati porterà. Si tratta di qualcosa di sorprendente, un inizio di quel dialogo che mi pare necessario, ma verso cui molti hanno timori. Sia i credenti che i non credenti camminano in punta dei piedi per paura di perdere. Mi viene in mente l’appello di Giovanni Paolo II, che incontrai in Bulgaria. Tutti ricordiamo il suo "Non abbiate paura". Egli si rivolgeva ai cattolici in riferimento al comunismo. E i risultati si son visti: nacque Solidarnosc e il Muro di Berlino cadde. Voglio dirlo ai miei amici laici: "Non abbiate paura della religione". Voi avete i modi per pensare il bisogno religioso senza la paura di essere inghiottiti dall’oscurantismo. Possiamo far meglio di Voltaire, superando gli abusi della religione e guardando il positivo del credere». Quali i motivi per cui partecipa al Cortile?«C’è bisogno di costruire una cultura europea come un’unità complessa, che fa riferimento alla tradizione greca, latina, cristiana, ebraica (non musulmana). Non bisogna lasciare questo compito ai politici, altrimenti la religione subisce una manipolazione. Quando religione e politica si intersecano, ciò avviene sempre per ragioni "politicanti": la società civile deve interessarsi delle religioni. Perciò il Cortile è un iniziativa che apre tale nuova prospettiva. Lo scorso anno, in un documento commissionatomi dal Consiglio economico, sociale e ambientale di Francia, ho proposto la creazione, a livello di Unione europea, di un Collegio della cultura europea per ripensare il rapporto fra le religioni e la secolarizzazione nella formazione del nostro continente. Il Cortile segna un inizio, ma deve essere la società a porsi in atteggiamento di dialogo. Inoltre, ho aderito volentieri all’invito del cardinal Ravasi perché è una persona che conosce bene la cultura francese contemporanea». In Francia vige una laicità che molti reputano troppo "stretta". Quale deve essere il rapporto tra la politica e le religioni?«Io sono un’adepta dello Stato laico alla francese. Però rimango convinta che le religioni debbano essere riconosciute a livello individuale. La nostra rimane la miglior forma di laicità, eppure dobbiamo studiare meglio i diversi credo, farne oggetto di ricerca a scuola in modo che possano diventare motivo di incontro tra persone. Agli studenti va offerto un ventaglio di conoscenze religiose; l’insegnamento religioso deve essere garantito con basi scientifiche. Quello di cui si avverte la necessità è un dibattito pubblico e sociale sulle religioni: sui media, in televisione, tra gli intellettuali. Io sto cercando di farlo nelle scienze umane». «Rendere Dio presente nel mondo» è il "manifesto" dell’attuale papato. Vede un pericolo questa prospettiva di Benedetto XVI?«Quando parla di "rendere Dio presente nel mondo", il Papa fa il suo mestiere: sarebbe bizzarro che non lo facesse! Del resto va sottolineato come solo il cristianesimo, tra i monoteismi, ha promosso l’idea dell’universale dove si assiste al rovesciamento dell’unico Dio su tutte le sue creature. La politica di questo Papa mi sembra vada in questa direzione. Le religioni monoteistiche sono esposte al rischio di imporsi come verità, anche violenta, ma al contempo propongono dentro di sé il tema della pluralità, il germe della diversità e dello straniero. Il mio augurio è che, dal confronto del Cortile, ci si possa avviare verso questa strada di universalità».
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