venerdì 15 marzo 2019
A Firenze una retrospettiva sull’artista che fu maestro di Leonardo e di altri grandi della generazione successiva. Una mostra che cambia l’immagine che avevamo di lui e del suo stile scarnificato
Verrocchio, busto in terracotta di Giuliano di Piero de' Medici (1475ca.)

Verrocchio, busto in terracotta di Giuliano di Piero de' Medici (1475ca.)

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La mostra che si tiene a Palazzo Strozzi, e al Museo del Bargello sede permanente di alcune importanti sue opere, è destinata, credo a cambiare l’immagine di Andrea del Verrocchio anche presso il pubblico meno specialistico. Di Verrocchio che idea avevamo? Sapevamo, come dice il sottotitolo della mostra, che fu il «maestro di Leonardo»; ma nella sua bottega passarono anche Perugino, Botticelli, Ghirlandaio, Signorelli, Lorenzo di Credi, per dire solo i più celebri. Come giustamente ricordano i curatori della grande mostra, Francesco Caglioti e Andrea De Marchi (catalogo Marsilio), la bottega di Verrocchio come quella di Donatello costituiva una fucina, «aperta e generosa, capace di far dialogare le arti congeneri».

A volte, quando si è tesi, ci sembra di essere «un fascio di nervi». La mano del San Gerolamo nell’affresco di San Domenico a Pistoia, come anche la sua figura intera, evoca proprio un realismo di tendini e nervi, che si può vedere anche nella scultura del Giovane addormentato, così come, questa forma essicata e scarnita fin quasi a far sentire attraverso la pelle lo scorticato dell’anatomista, è evidente nel Battesimo di Cristo degli Uffizi. Era questa, forse, l’idea che di Verrocchio avevamo fino a oggi: un pittore che non concede nulla al fascino delle apparenze. Ora possiamo ricrederci.

Il suo realismo, anche nella connotazione eroica, poniamo, della statua equestre del Colleoni a Venezia, rientra certamente nello studio della fisiognomica, ma la conoscenza della “macchina umana” in Verrocchio tende alla dissimulazione e possiede sempre, come un radiologo che abbia trasferito negli occhi il proiettore di raggi X e non possa liberarsene, un doppio sguardo: dentro e fuori separati dall’ultrasottile membrana pittorica che trasfigura la realtà.

Questo anche quando dipinge le Madonne, che nelle labbra hanno il loro sintomo vitale, quello di una carnalità che si stempera quasi nella civetteria delle giovani donne fiorentine della corte dei Medici. Certo, le sue Madonne sono ispirate a modelli classici, ma non mancano della modernità che incarna i tipi femminili del suo tempo e forse ne trae precisi modelli fisiognomico. Si vedano le due Madonne col Bambino del Museo di Stato di Berlino, e quella di Londra col bellissimo angolo di paesaggio sullo sfondo, per verificare la profilatura delle labbra netta e carnosa, ma anche la casta indifferenza verso lo spettatore, le palpebre abbassate a guardare il figlio che nello sguardo ha un velo di malinconia. Nelle riprese del modello inventato da Verrocchio, da parte in pittori come Ghirlandaio e Perugino e anche Botticelli, quel tocco di “realtà” si stabilizza nell’idealizzazione di un “involucro” dove la forma, e le sue leggi, hanno il sopravvento sull’esperienza dell’umanità che essa può racchiudere. Per preservare questo alito vitale, questa empatia col soggetto rappresentato, la pittura del Verrocchio sembra proteggersi con un velo diafano di luce purissima, una campana di vetro, che funge da viatico dello sguardo.

Potremmo anche dire che in queste Madonne Verrocchio rappresenta una idea antitragica del presentimento materno del destino a cui sarebbe andato incontro il figlio, come se il tremore e l’amore ferito contenuto in quel sentire anticipato e profetico dovessero per un istante eterno eclissarsi sotto le palpebre abbassate della Vergine che veglia sul Bambino.

Verrocchio visse relativamente poco: cinquantatré anni (1488). Eppure fece tempo a saggiare e sviluppare tutte le arti maggiori: dal disegno, in cui eccelleva (per cui gli bastò vedere i disegni del giovane Leonardo per prenderlo con sé in bottega); la scultura, dove rinnovò procedimenti, forme e composizioni, come nel bronzo dell’Incredulità di San Tommaso che segue una dialogale per cui il piede di Tommaso aggetta dal basamento; e la pittura che si dice abbia praticato tardi, ma – come notano i curatori della mostra – si può davvero pensare che quelle grandi promesse che poi occuparono la scena dell’arte dopo di lui, abbiano appreso dal maestro un’arte che egli ancora non sapeva ben maneggiare? Evidentemente no. Si potrebbe dire che ogni tempo ha la sua arte d’elezione, anche all’interno della singola biografia. E del resto non gli ci volle molto per cambiare e introdurre in pittura una diversa visione del tema della Madonna col Bambino che i suoi allievi, anche i più celebri, assunsero senza comprenderne forse veramente l’impostazione (stoica?, sebbene calata nella corte medicea).

Realismo e dolcezza, il diapason nel quale si tende lo stile di Verrocchio. Il busto della Dama col mazzolino, splendido marmo del Bargello esposto in mostra accanto alla Giovane gentildonna di Desiderio da Settignano e all’altro busto marmoreo del Verrocchio proveniente da New York, testimonia questa volontà dello scultore di raggiungere progressivamente una verità umana nella quale non manchi però un bagliore dell’eterno: il volto classico e quasi antico della dama specchia il suo silenzio nelle mani incrociate che tengono i fiori ed esaltano in questa scultura una struggente tenerezza. Il bordo della veste indossata dalla dama, con pieghe e trasparenze degne di uno scultore barocco, corre attorno al collo con lievi irregolarità che hanno la funzione di conferire all’opera un afflato di verità quotidiana che invece manca nel busto New York di dieci anni precedente. Un tema, quello dell’avvicinamento alla realtà senza tradire la ricerca dell’assoluto, che s’incontra già nell’Eroina antica (Olimpia o Cleopatra) dove la regolarità del volto visto di profilo si libera dalla dipendenza dei modelli classici col movimento aggettante dell’acconciatura e la posizione di tre quarti del busto.

Restano da segnalare il meraviglioso Crocifisso del Bargello, la cui umanità regge il punto accanto a quelli, forse formalmente più compiuti di Giuliano da Maiano, Giuliano da San Gallo e Benedetto da Maiano. Così come impressiona l’accostamento fra un busto di Cristo Salvatore in terracotta dipinta (New York), attribuito da Caglioti al Verrocchio, con altri due busti analoghi (New York e Minerbio) che sarebbero “copie” del primo. Il tema ritorna nel Salvatore di Pietro Torregiani, la cui bravura plastica sconta nella fisiognomica il limite di una “umanità troppo umana” che nel presunto busto di Verocchio appare invece addensarsi in un volto risorto e già trasfigurato. Va ricordato, infine, che nella mostra vi sono due attribuzioni importanti a Leonardo: una testa di vecchio dipinta, di grande forza espressiva, che risalirebbe all’apprendistato nella bottega di Verrocchio con riscontri probatori sul disegno di Vecchio dell’Albertina; e la Madonna col bambino in terracotta del Victoria and Albert Museum che secondo Caglioti possiede una tale originalità d’insieme che «impedisce di rintracciare altre opere della stessa mano». Se fosse Leonardo (il volto della madre e del figlio depongono a favore), sarebbe la prima scultura certa attribuibile a Leonardo, tema affrontato alcuni decenni fa da Parronchi in Leonardo scultore e non molto progredito da allora. Giustamente Caglioti lo considera «uno dei numeri più straordinari della mostra» e chissà che da qui non si possa partire per una prossima esposizione, sia pure in ritardo sul cinquecentenario, sulla scultura leonardesca.

La conclusione di questa breve riflessione spetta al singolarissimo disegno a penna e inchiostro del Metropolitan Rilievo metrico di un cavallo di profilo da sinistra (degli ultimi anni dell’artista) dove lungo le principali linee che tracciano la figura sono scritte a mano le misurazioni riferite a ogni parte per definire uno schema delle proporzioni equine. Una sorta di disegno-scrittura, che, nota Carmen Bambach, rappresenta «un esercizio di grande eleganza concettuale ». E nella sua serietà sfiora l’ironia.

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