lunedì 3 febbraio 2014
Sono già centomila i biglietti prenotati (da tutta Italia e anche dall’estero) per vedere «La ragazza con l’orecchino di perla», che sarà esposta da sabato 8 febbraio fino al 25 maggio a Palazzo Fava di Bologna.
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Sono già centomila i biglietti prenotati (da tutta Italia e anche dall’estero) per vedere «La ragazza con l’orecchino di perla», che sarà esposta da sabato 8 febbraio fino al 25 maggio a Palazzo Fava di Bologna in una mostra sulle grandi opere del Mauritshuis Museum de L’Aia. Il celebre capolavoro di Jan Vermeer attira punte di duemila richieste giornaliere, 200 delle quali provenienti da Francia, Austria e Svizzera (Bologna è l’unica sede europea ed ultima tappa prima del ritorno in Olanda del capolavoro); la giornata inaugurale vedrà la mostra chiudere alle due di notte. Una vera «Vermeer-mania» dovuta alla cura dello storico dell’arte Marco Goldin e alla collaborazione tra Fondazione Carisbo, Genus Bononiae-Musei nella Città e alcuni sponsor. Al mitico dipinto nel 1986 Marta Morazzoni (nella foto) aveva dedicato un noto romanzo («La ragazza col turbante», Longanesi), a cui abbiamo chiesto di rievocare il suo primo incontro col quadro.La ragazza col turbante (detta anche «La ragazza con l’orecchino di perla») è un’opera magicamente limpida: non ci sono sottintesi, non c’è alcuna allusività nel viso dell’adolescente che si volta a guardare lo spettatore e non lo adesca con arte seduttiva. Le hanno fatto indossare un copricapo a fingere un altrove esotico, all’orecchio una perla irraggia luce, come le cornee dei suoi occhi e il bianco del colletto che esce dal vestito giallo. Se c’è inquietudine è nel nero dello sfondo su cui lei si staglia, con lo sguardo paziente e interrogativo, con una domanda non ancora formulata dalle labbra dischiuse. Non per lei, tempo fa, avevo fatto il viaggio fino all’Aja, al Mauritshuis. La mia meta era la Veduta di Delft, il quadro più bello del mondo (avevo alterato così il più sofisticato giudizio di Proust) e il solo paesaggio nella scarsa produzione di Jan Vermeer. Era lontanissima da me l’idea di farne un racconto, in effetti non avevo neanche in mente di scrivere racconti, la mia vita andava da un’altra parte.Nella piccola sala al primo piano del museo c’era poca gente, si poteva sostare con tranquillità, a lungo, davanti al dipinto con la porta di Rotterdam  specchiata nel canale, ammirare il gioco di nuvole sulla città scurita da un temporale forse appena passato, e luminosa sullo sfondo. La ragazza col turbante mi stava alle spalle, collocata sulla parete di fronte alla Veduta: dedicai attenzione infine anche a lei: era talmente vera, talmente semplice! L’istantanea colta rubando uno sguardo in tralice. E però, come le cose molto semplici, smuoveva dentro di me il sospetto di una nascosta verità.La perfezione tecnica del pittore non bastava a spiegare il coinvolgimento emozionato, che si ripeté poi con le altre opere dell’artista, i tre piccoli gioielli del Rijkmuseum di Amsterdam, o la Merlettaia del Louvre, il Geografo di Francoforte o l’Atelier dell’artista a Vienna e così via per le opere che ho cercato in giro per il mondo. Quando scrissi, anni dopo, il racconto, ebbi per certo di non dover parlare del pittore: qualcosa nel silenzio che domina le sue opere mi imponeva il silenzio su di lui. Mi sembrava di capire che un filo conduttore giustificava la quiete dei suoi quadri, popolata da presenze femminili sobrie e solide, signore e fantesche vestite con proprietà borghese, in interni ordinati e puliti, qualche volta con lo spazzolone in primo piano, tra pareti piene di quadri, mentre la luce piove dai vetri quadrettati, alludendo a un mondo di fuori di cui non arrivano che echi attutiti. Mi convincevo che a tanto realismo di immagini dovesse corrispondere una dimensione di straniata favola, qualcosa come un sogno ad occhi aperti. Era curioso che il sogno stesse nella normalità dei personaggi ritratti, una serva che versa il latte da una brocca, la merlettaia china sul tombolo, la donna incinta che legge la lettera alla luce della finestra, o questa ragazza che da 4 secoli ci guarda paziente. La cura di ogni singola pennellata suggeriva come all’artista stesse a cuore governare i luoghi del suo racconto, le atmosfere di una vita ordinata e piana. Una vita finta.Lo scoprii poi, leggendo il libro più affascinante su Vermeer scritto da John Michael Montias, la sola biografia possibile, mi dissi, e coerente con la realtà di quest’uomo sfortunato. Si tratta di una ricostruzione priva di «racconto», una storia percorsa per atti notarili, per sentenze di tribunale, archivi di parrocchia e libri mastri. Quanto di meno avventuroso e introspettivo si possa immaginare: ma attraverso l’aridità dei dati si illumina, emergendo da uno scuro sfondo rembrandtiano, una vita di affanni, una famiglia numerosa, con 11 figli e un lavoro spesso poco remunerativo e in tempi in cui la guerra, soprattutto nel lungo strascico con la Francia,  tagliava le gambe all’economia delle province olandesi. La casa di Delft piena di rumore e di liti, le citazioni in tribunale per debiti, le poche occasioni di uscire dalla provincia per qualche expertise ad Amsterdam, per il resto una vita chiusa nel quartiere cattolico a lottare per il pane quotidiano (anche il panettiere venne pagato con un quadro): da una storia così travagliata nasce un’arte irenica, che racchiude nella cornice di un quadro un desiderio irrealizzato.A 43 anni Jan Vermeer muore, probabilmente di infarto, lasciando la moglie e i figli in grave stato di indigenza. La ragazza col turbante e la perla all’orecchio è una delle figlie, forse quella stessa per cui si era indebitato e aveva litigato con un vicino, con conseguente processo per insolvenza: i soldi chiesti a prestito erano per comperarle una slitta con la vela. L’enigma che da tempo fa rivaleggiare la giovane olandese con la Gioconda è forse qui, nella squisita calma che sovrasta il tempo, e protegge l’artista che ha lavorato a una realtà tanto diversa da quella che lo assediava. Non sapevo nulla di tutto questo quando ho immaginato il viaggio in Danimarca di un quadro perfetto, sentivo solo che l’autore aveva diritto al silenzio.
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