Rabindranath Tagore
Avventura significa esperienza di trasformazione. Chi vive l’avventura si espone, quand’anche non ne avesse ancora coscienza, a qualcosa di misterioso o di meraviglioso, che avrà conseguenze imprevedibili sulla sua esistenza. L’avventura ci restituisce all’immensità dell’aperto, alle sue possibilità plastiche; ci mette in ascolto dell’inaudito; ci sprotegge dalle armature di ogni tipo che abitualmente ci rivestono; ci avvicina temerariamente al verbo nascere, questo verbo che implica sempre più anche l’ardimento dello svuotarsi e l’attraversamento simbolico della morte. Ma la verità è che l’essere umano non può non avventurarsi. E sappiamo che, per chi non si avventura, la morte non solo appare più grande, ma si rivela anche senza senso.
Come in quella poesia di Rabindranath Tagore, che si presenta come un’anti-parabola:«L’uccello domestico viveva nella gabbia,/ l’uccello libero, nella foresta./ Il loro destino era incontrarsi,/ e giunse infine il momento./ L’uccello libero cantò:/ «Amor mio, voliamo nel bosco!»./ L’uccello prigioniero sussurrò:/ «Vieni qui, viviamo insieme nella gabbia»./ L’uccello libero rispose: «Tra le sbarre/ non c’è spazio per spiegare le ali»./ «Ahimè – gemette l’uccello nella gabbia/ – non saprei dove posarmi, nel cielo».L’uccello libero cantò:/ «Amor mio, canta i canti della foresta»./ L’uccello in gabbia rispose:/ «Vieni invece qui con me/ e t’insegnerò le parole dei saggi»./ L’uccello libero replicò: «No… no!/ I canti non si possono insegnare»./ L’uccello nella gabbia gemette: «Ahimé,/ io non conosco i canti della foresta».Il loro amore era sconfinato,/ ma non potevano volare ala contro ala./ Si guardavano attraverso le sbarre della gabbia/ e invano desideravano conoscersi./ Battevano ansiosamente le ali e cantavano:/ «Vieni più vicino, amor mio!»./ Ma l’uccello libero diceva:/ «Non posso. Ho paura della gabbia con le porte chiuse»./ E l’uccello in gabbia sussurrava: «Ahimé,/ le mie ali sono morte».
Macrobio, uno scrittore romano del IV secolo molto letto e commentato nel mondo medievale, diceva che ogni uomo doveva confrontarsi, nello svolgimento della sua avventura, con quattro principi: la sua individualità (Daimon), il destino (Tyche), l’amore (Eros) e la necessità (Ananke). Successivamente, aggiunse alla lista un quinto elemento che deve configurare l’avventura umana: la speranza (Elpis). Non è necessario essere dei viaggiatori storditi dall’esotismo della distanza o i frenetici membri di quei club di avventura aventi, come solo obiettivo, quello di attirare ad ogni costo le persone lontano da sé stesse. Il viaggio intorno alla propria camera può essere ampio quanto il giro del mondo, e tuffarsi riconciliati nel proprio cuore può equivalere al contatto con patrie e lingue sconosciute.
Ci sono piccoli viaggi di venti passi sulla superficie che hanno una portata maggiore di ventimila leghe sotto i mari, e gesti comuni che, nella loro quasi immobilità, toccano velocità che la tecnica mai sarà capace di riprodurre. Nella vera avventura la vita viene sperimentata non come attività che si conclude in sé stessa, ma scoperta come potenza: e questo già di per sé è rigenerante. La vita non si rivela soltanto nell’orizzonte di ciò che in questo momento avviene, ma la si riconosce nel pulsare silenzioso di ciò che, in un momento qualsiasi, essa può divenire. Non stupisce che la più grande delle avventure sia l’amore. Nel piccolo libro del filosofo Giorgio Agamben intitolato appunto L’avventura sottolineo queste parole: «L’amore è sempre senza speranza e, tuttavia, soltanto a lui appartiene la speranza».
(traduzione di Pier Maria Mazzola)