giovedì 23 luglio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
«Ce l’ho con l’amore che tanto mi fa male. Dalla voliera dei sogni sono spariti i trespoli...», canta la voce graffiante di Andrea Satta dei Têtes de Bois. Sono i versi di una poesia scritta dall’altro poeta di Casarsa della Delizia, Ezio Vendrame (classe 1947). L’unico vero poeta del gol, se ne sta lì, rintanato (da un po’ non risponde a nessuno al telefono) in quel fazzoletto di terra friulana dove affondano le radici di Pier Paolo Pasolini. La prima volta che andammo a trovarlo ci portò sulla tomba del “Poeta”, e con quella malinconia di chi ogni istante si dà «per intero», sussurrò: «La gente di qui si è dimenticata di Pasolini, potevano ricordarsi di me?». Lì c’è il suo passato di Una vita in fuorigioco (titolo di un suo libro), la sua famiglia, le sconfitte peggiori e quella «sfortuna» che non lo fa dormire. Quando amava incontrare gli altri giocava d’anticipo anche agli appuntamenti: «Arrivo sempre due o tre ore prima – mi disse –, perché non sai quanto amore c’è nell’attesa di una persona che vuoi incontrare». Quando ha smesso di giocare, il suo sogno era quello di dribblare la stupidità vanesia dei genitori e «allenare una squadra di soli orfani». Sogno sfumato. Vendrame, “orfano” da sempre, e solo, anche in mezzo agli ottantamila del San Paolo, quando pensava di essere arrivato e sparò a Janich un contratto da venti milioni: «Il doppio di quello che mi davano al Vicenza ». Salvo poi scoprire che un certo Ferradini, un ragazzotto dell’Atalanta con una sola presenza in Serie A, ne aveva chiesti e ottenuti sessanta.  Ma lo sapeva già che quello del calcio era – e rimane – un mondo di faccendieri, di anime nere che venderebbero anche la madre per i trenta denari di Giuda. Lui, che non ha mai tradito se non se stesso, annota sul quaderno delle malinconie: «Se ho perso tutto, l’ho fatto solo per avere troppo amato». Maledice ancora il giorno che smise di studiare, perché: «Ragazzi guai... un’alternativa ci vuole sempre nella vita». La sua non era quella finta ubriacante o quelle punizioni, che «entravano sempre in allenamento e poche volte alla domenica». Il suo è stato tutto Un farabutto esistere (altro suo titolo): l’unico avversario contro il quale ha sempre perso. Come contro la Juventus di Boniperti, che lo chiamava il “Kempes italiano” e l’avrebbe portato a Torino: «Poteva finire in Nazionale se solo avesse avuto un’altra testa», chiosò il presidente bianconero. E quella testa ieri come oggi gli risponderebbe d’istinto: «Da parte mia io giocavo in Nazionale da sempre, perché ho fatto solo quello che ho voluto, senza mettere in mano ad altri il telecomando della mia vita».  Libero di decidere e di sbagliare: donna, squadra, città. Poteva finire la carriera raggiungendo l’altro genio folle George Best a Los Angeles o volare in Kuwait con Rivelino e guadagnare una barca di petrodollari. Ma era stanco di quel circo, ancor prima che diventasse solo un patetico showbiz da cui scappare. Fuggire sulla fascia dell’anima, con i calzettoni anarchicamente abbassati. Via dagli sguardi severi e indagatori della gente di paese, per arrivare a Parigi e conoscere il suo «mito di gioventù, Jane Birkin». Fole di un ribelle, stregato da un pallone: «Calciandolo in aria, da bambino sentii di poter bucare il cielo, di potermi aprire un varco, una via di fuga». Quel pallone a quattordici anni lo fece rimbalzare a Udine, alla casa-collegio della villa del Comuzzi dove alloggiava assieme a un ragazzone, friulano pure lui, Dino Zoff. «All’epoca era un portiere “brocco” in cui nessuno credeva ». Nessuno tranne Ezio, perché lo Zoff che prendeva sette gol dal Foggia conservò per anni in tasca l’articolo della sua caporetto. «Segno di forza e d’umiltà: anche se avesse fallito nel calcio, per me Dino sarebbe rimasto sempre un campione del mondo». Un leader, un capitano vero come “Totonno” Juliano, che a Napoli pretendeva che i compagni di squadra dividessero i premi partita anche con i due magazzinieri: «Gli ultimi, eppure indispensabili».   Uomini veri, gente del suo popolo, distanti anni luce dai “calciatori-idolo” d’oggi. Vendrame era stato netto con gli ultrà del suo Vicenza, «quelli che per una mia maglia e un mio autografo avrebbero dato un rene… Ma io non sono un chirurgo che salva vite umane e nemmeno un operaio che per arrivare alla fine del mese si deve fare un sedere tanto... Io sono fortunato ed è per questo che non vi capisco. Che cosa saranno mai queste partite di calcio. Inventatevi delle alternative».  Le sue alternative? Gli amori, i libri scritti e bruciati. Il coraggio di dire a mister Vinicio che minacciava di lasciarlo fuori: «Se mi mandi in tribuna godo!». Le cicatrici sono interiori e non certo quelle dei calcioni agli stinchi che gli rifilò il mediano del Blackpool, Wilkins: «All’ennesima zampata lo baciai». Di queste storie sorrideva, ieri,Vendrame. Oggi invece spesso è triste per quelle cose della vita che fanno piangere molto più degli errori di un fantasista che, anziché calciare dritto in porta, a San Siro quella domenica preferì fare il tunnel al più grande dei numeri 10, Gianni Rivera. «Ma poi gli ho chiesto scusa», ricordava con candore. Vendrame ha sempre avuto il coraggio di scusarsi con il mondo, che è la sua coscienza. Chiede scusa anche per aver solo pensato di incassare sette milioni facili facili: bastava far vincere l’Udinese, ma poi si accontentò del solito premio-vittoria che gli dava il Padova, 44mila lire, e decise di vincerla da solo, quella partita. «Mi soffiai il naso con la bandierina e a quei tifosi dell’Udinese che mi sputavano insulti gli dissi che avrei fatto gol da lì, dal calcio d’angolo». E gol fu. Un gol alla Vendrame, la giocata folle del genio per cui in fondo «il gol è la morte di tutto». Chi non lo ha mai capito sono stati gli insensibili, gli stessi che hanno fatto “morire” l’Appiani. Pur di salvarlo, Ezio si incatenò davanti ai cancelli, per giorni. Sarebbe morto per quello stadio e invece a morire – d’infarto – fu quel tifoso, quando lo vide scartare a ritroso i propri compagni e fingere di segnare nella sua porta. «Mi sono convinto che si è suicidato, perché ci deve essere una ragione se un malato di cuore viene a vedere proprio me». Storie che i suoi tifosi si tramandano alla trattoria di Luigino De Gobbi (a Olmo di Creazzo). Sono i santi bevitori del suo Veneto segreto. Il “Kubala”, panza allegra e mercante d’arte che dopo due allenamenti con l’Ezio, si era convinto di poter strappare un contratto da professionista al Vicenza, e in giro diceva che «rinunciò soltanto perché Pastorello gli concedeva di fare l’amore una sola volta alla settimana ». Nella sua biografia esistenziale c’è spazio solo per loro, per i pezzi unici, come lui. I lenti in campo come “Moviola” Morello, imprendibile però «nello spalancare quel sorriso grande come l’Oceano». Lo “Zigo” Zigoni, che gli bastava sentire il Bentegodi gridare in coro il suo nome che mandava in manicomio gli avversari, «e solo per questo devono assolutamente intitolargli lo stadio di Verona». Geni incompresi, fuoriclasse di provincia.  Dalla panchina l’unico fuoriclasse che ha allenato è stato Rocco Paiero, l’amico di San Vito al Tagliamento, «un ragazzo di una dolcezza infinita. Hanno scambiato il suo disperato bisogno di non diventare adulto, la sua smania d’amore, per un problema psichiatrico». Quando parla Ezio, lo fa con quel timbro dolce e struggente alla «Tu no, tu no, tu no, tu non puoi andare via» del suo amato Piero Ciampi, per il quale un giorno smise di giocare e lasciò il campo per salire in tribuna ad abbracciarlo. Un atto dovuto, a quel giglio reciso nei campi della poesia dove adesso Vendrame si allena, scrivendo suoi versi e rileggendo i Canti Orfici di Dino Campana, «che è qualcosa che mi scortica dentro». Firmato: Ezio Vendrame, il poeta di Casarsa. L’unico capolavoro di questo secolare mistero buffo che ci ostiniamo a chiamare ancora il gioco del calcio.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: