domenica 8 aprile 2018
Lo studioso francese Gilles Sauron esplora la complessa simbologia dei girali d’acanto, protagonisti della decorazione dell’Ara Pacis a Roma che celebra il ritorno dell’«età dell’oro»
L’Ara Pacis, a Roma, realizzata tra 13 e 9 a.C.

L’Ara Pacis, a Roma, realizzata tra 13 e 9 a.C.

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Si è fatto più nemici che amici il professor Gilles Sauron, docente alla Sorbona, pubblicando i suoi studi sull’ornamentazione vegetale dell’Ara Pacis, a giudicare dalla levata di scudi dei suoi colleghi antichisti. Da Paul Zanker a Salvatore Settis, agli americani Peter J. Holliday, John Pollini e David Castriota, lo storico francese ha dovuto parare, come un gladiatore nell’arena, un fuoco di fila da ogni lato di un’agguerrita comunità di studiosi, quasi scandalizzati dalle sue tesi. Le critiche vanno dall’aver fatto asserzioni «problematiche e contraddittorie» a «oltrepassa di molto ogni possibilità di ricezione» ovvero «va sicuramente troppo lontano», fino all’accusa di aver ceduto al fascino delle teorie nietzscheane quando rimette in gioco la coppia dialettica di Dioniso e Apollo. La sintesi di questa querelle è il gran rifiuto anche soltanto dell’ipotesi che vi possa essere «un messaggio simbolico di natura politica nei racemi dell’Ara Pacis» da parte dell’archeologo Robert Cohon, docente all’University of Missouri-Kansas City, esperto di forme decorative della scultura in marmo romana e di falsi nell’arte antica. La risposta di Sauron arrivò nel 2000, in un corposo studio oggi tradotto da Jaca Book in una versione aggiornata, il cui titolo suona più che mai intrigante: La storia vegetalizzata. Il duplice messaggio dell’Ara Pacis (pagine 256, 45 tavole fotografiche, euro 40,00). Il sottotitolo originale, però, era meno focalizzato sul monumento e più orientato a leggere il rapporto fra “ornamento e politica a Roma”.

L’imperatore Augusto nelle Res gestae scrive che per le sue imprese vittoriose a Nord delle alpi, col controllo dei valichi alpini, il ritorno da una Spagna ormai pacificata e la sottomissione dei Reti e dei Vindelici, insomma a testimonianza dell’ordine riportato nell’impero, il Senato di Roma «decretò che per il mio ritorno si dovesse consacrare l’ara della Pace Augustea presso il Campo Marzio e dispose che in essa i magistrati, i sacerdoti e le vergini vestali celebrassero un sacrificio annuale». Quell’altare della pace che lui aveva ristabilito prevalendo sul caos e favorendo un tempo di prosperità per Roma venne costruito tra il 13 e il 9 a.C. e inaugurato il giorno del compleanno di Livia, moglie di Augusto. La questione affrontata da Sauron è estremamente complessa, perché il tema del simbolismo ornamentale è «un continente piuttosto inesplorato che riserva parecchie sorprese». Il monumento dedicato alla Pace «dichiarava in effetti la fede dei romani nel ritorno dell’età dell’oro» dopo l’epoca cruenta delle guerre civili, fede che aveva trovato già alcuni decenni prima nella IV Egloga di Virgilio la sua compiuta espressione, come ricorda Sauron che al rapporto fra Augusto e Virgilio ha dedicato un altro libro edito sempre da Jaca Book. L’età dell’oro era un mito che muoveva i romani al ritrovare un’«epoca primordiale della storia del mondo», il tempo perfetto dell’armonia universale e della fecondità della natura. L’Ara Pacis, come dimostrò Edmund Buchner, «occupava il lato orientale del quadrante di un gigantesco orologio solare costruito da Augusto… il più grande mai costruito sulla faccia della terra», che aveva come stilo non la tipica asta di metallo di qualche centimetro di lunghezza, bensì un obelisco di circa trenta metri, e l’imponenza di questa meridiana era proporzionata alla grandezza del cosmo proprio per esaltare il destino del nuovo signore di Roma che era investito dal Sole stesso del compito di preparare «l’avvento della nuova età dell’oro».

L’Ara Pacis riprendeva lo schema dei modesti santuari campestri dove l’altare era circondato da palizzate di legno, ma curiosamente imitando l’originale scolpendo nel marmo, sulla faccia interna del recinto, nella parte inferiore, la medesima teoria lignea. Fu lo storico tedesco Hermann Büsing, ormai quarant’anni fa, a dimostrare la dipendenza del recinto dell’Ara Pacis da quei santuari rustici e a sostenere che anche la facciata esterna doveva ispirarsi allo stesso modello, notando che era proprio «la decorazione del recinto a racchiudere il messaggio più complesso». Il tema decorativo, nella parte inferiore esterna, si compone infatti di sei rilievi a girali dove a dominare fra le specie floreali è l’acanto, la cui simbologia è legata al mito di Apollo. Si tratta – come ricorda Sauron – dei più grandi girali a rilievo che ci sono pervenuti dall’antichità greco-romana. Fino a qualche decennio fa queste forme ornamentali venivano interpretate più sotto l’aspetto della spazialità che per i significati simbolici che vi si celano. Fu lo stesso Büsing a porre fine a questa lettura, ma Theodor Kraus, che la sosteneva, aveva anche parlato di «acantizzazione» intuendo la strada oggi sviluppata da Sauron nelle sue ricerche. Perché attribuire tanta importanza a questi girali, si chiede lo studioso. Sauron evoca un aneddoto che ha per protagonista la moglie di Augusto: prima del matrimonio Livia aveva ricevuto sulle ginocchia una gallina bianca lascia- ta cadere dal cielo da un’aquila. La gallina teneva nel becco un ramo di alloro e da quel giorno la villa dove la futura sposa si trovava venne denominata Ad Gallinas e il ramo di alloro generò un boschetto dove Augusto trasse le corone dei suoi trionfi.

Questo aneddoto prova – secondo Sauron – quanto le metafore vegetali contassero agli occhi dei romani tanto che ne «cercavano delle manifestazioni nella natura stessa». H.P. L’Orange ha poi notato che «sull’Ara Pacis, i grandi fiori fantastici nascono dai girali come in Virgilio alcune preziose piante esotiche e aromatiche si mescolano all’edera e all’acanto» e aggiunge che «tanto in Virgilio quanto sull’Ara Pacis, grappoli d’uva sono sospesi a piante selvatiche». E Sauron commenta: «Tutto si sviluppa come se le piante preferite da Dioniso fossero qui deliberatamente collocate in posizione subalterna all’imperioso predominio dell’acanto». Il lettore potrà rendersi conto dalla serrata analisi dell’autore, che contesta puntigliosamente tutte le obiezioni che gli sono state rivolte dai colleghi, quanto sia sostenibile questa nuova ipotesi della dissimulazione nell’ornamento vegetale di una visione politica che celebra l’armonia ritrovata e la prosperità non soltanto di Roma, ma dell’intero mondo governato dalla Pax augustea, dunque come affermazione di un nuovo mito apollineo, che – conclude Sauron – attinge alla riflessione dei filosofi («del platonismo sulla politica, dell’aristotelismo sull’arte, dell’epicureismo sulla natura») e alla tradizione artistica dei greci, ma beneficiando soprattutto «dell’incontro fra il principe e Virgilio». La sintesi di tutto, ecco la novità, è la fondazione di un nuovo modello estetico incentrato sull’acanto che si rinnoverà fino al Medioevo e al Rinascimento. Come suggerisce Sauron si tratta di comprendere il «segreto» di una cultura nuova, di entrare nella mente dissimulatrice di un potere che ha consegnato all’arte il suo sogno di eternità. Ma questo ci fa capire anche quanto la decorazione fosse una cosa seria e non semplicemente una soluzione estetizzante come siamo solito intenderla oggi.

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