martedì 28 luglio 2015
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Il 12 settembre prossimo, a Venezia, avrebbe dovuto ritirare il riconoscimento alla carriera assegnatogli dal Premio Campiello; la motivazione  mette in luce la capacità che ha avuto Sebastiano Vassalli «di raccontare con una forma limpida vicende e temi di rilevanza storica e sociale, in grado di offrire spunti per comprendere anche il nostro presente. Un lavoro dal forte significato etico e pedagogico, tanto che le sue opere vengono studiate a scuola e all’università, oltre ad essere tradotte nelle principali lingue straniere». Sebastiano Vassalli se ne è andato, dopo una malattia fulminante, all’età di 73 anni, proprio quando il suo lavoro di scrittore stava ricevendo una rinnovata attenzione. Aveva da alcuni anni cambiato editore, dopo decenni di fedeltà all’Einaudi, passando a Rizzoli che aveva pubblicato lo scorso anno il romanzo Terre selvagge, in cui racconta i territori boscosi e putridi della pianura piemontese nel 101 a.C. e la sanguinosa battaglia dell’esercito romano contro i Cimbri. Agli inizi di settembre uscirà il suo nuovo e ultimo romanzo, Io, Partenope.  È da poco uscito invece Il confine, dedicato ai cento anni del Sudtirolo in Italia, in cui ritorna al tema che aveva già affrontato nel 1985 con il pamphlet Sangue e suolo. In vari libri pubblicati da Interlinea lui, da sempre molto schivo e isolato anche rispetto alla società letteraria italiana, aveva raccontato il rapporto con la sua terra di pianura e di risaie, da Il mio Piemonte a Terra d’acque. Novara, la pianura e il riso, fino all’autobiografia, in forma di conversazione con Giovanni Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo, come lui stesso amava definirsi. E con la stessa casa editrice ha pubblicato la nuova edizione dell’Oro del mondo, uno dei suoi primi romanzi e tra i suoi preferiti, pubblicato nel 1987: inizialmente rifiutato dall’Einaudi e poi ripescato da Giulio Einaudi stesso, che lo aveva fatto leggere a lettori di tutto rispetto come Natalia Ginzburg e Giorgio Manganelli. I giudizi erano stati molto positivi: lo racconta lo stesso Vassalli nella postfazione alla nuova edizione di un romanzo che va alla ricerca del carattere nazionale degli italiani, individuato nelle contraddizioni degli anni in cui l’Italia era ancora divisa tra fascisti e antifascisti. Prima dell’Oro del mondo, Vassalli aveva ottenuto, nel 1984, un grande attenzione critica con L’anno della cometa, un romanzo-verità sulla vita di Dino Campana; libro alternativo, rigoroso nel mettere in gioco tutti i luoghi comuni per rivelare le verità e le ombre del poeta di Marradi. E ai poeti ritornerà con Amore lontano (2005), dove racconta le vite di sette poeti da Omero a Virgilio, da Villon a Rimbaud, fino a Leopardi. Sosteneva: «Parlo della poesia per arrivare al principio di tutto, cioè alla parola. “In principio era la parola”. La parola non è soltanto strumento del comunicare e linguaggio: è qualcosa di più. È, davvero, una luce che splende nel buio di un mondo privo di senso e gli dà (quasi) un senso». Da ultimo va ricordata la candidatura al Premio Nobel per la Letteratura 2015, annunciata lo scorso maggio da un quotidiano dell’Università di Göteborg legata all’Accademia di Svezia.  Era nato in Liguria nel 1941, ma fin da piccolo si era trasferito a Novara, dove era stato affidato a due zie non sposate («Nella prima parte della mia vita non c’è stato niente che assomigliasse a una vera famiglia. Sono padre e madre di me stesso: come un fungo») e si è sempre sentito parte di quella terra di pianura, dal mondo magico ma anche terribile delle risaie: «La valle del Ticino è stata il mio approdo fantastico negli anni della giovinezza: con i cercatori d’oro e i raccoglitori di pietre bianche; con i barconi di ferro a fondo piatto e con i venditori ambulanti, i bracconieri». Tra gli anni Sessanta e Settanta, nei quali insegna dopo la laurea in Lettere con una tesi su arte contemporanea e psicanalisi discussa con Cesare Musatti, partecipa alla neoavanguardia nell’ambito del Gruppo 63. Esordisce con testi poetici affermandosi con alcune prose sperimentali. Anche se poi però dirà: «Sono diventato scrittore a quarant’anni, con La notte della cometa. Da allora, credo di avere fatto alcune cose buone e anche ottime, che però non hanno avuto un successo clamoroso e non possono averlo perché l’umanità è un mare dove i movimenti avvengono in superficie. Più si scende in profondità, più tutto sembra (ma non è) immobile».  Il 1990 è l’anno del grande successo e quello della scelta di continuare attraverso il romanzo un’investigazione dei segni di un passato che illumini l’inquietudine del presente, riandando a un Seicento manzoniano dove però è assente il segno della Provvidenza. La chimera vince il premio Strega e resta la sua opera più nota. Nella nuova, recente edizione Rizzoli scrive: «Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il “macigno bianco” che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia». Ha poi continuato con il Settecento di Marco e Mattio, nel 1991, poi l’Ottocento e gli inizi del Novecento con Il Cigno nel 1993. A cavallo del 2000 si avvicina al presente riscoprendo anche il racconto, soprattutto con La morte di Marx e altri racconti del 2006 e L’italiano dell’anno successivo, prima del ritorno al romanzo fondato sulla storia: la Prima guerra mondiale in Le due chiese, del 2010, e gli antichi Romani nel Terre selvagge. La storia, quindi: per dare una speranza alla vita dell’uomo e un senso al turbinio del presente. In un incontro con i ragazzi di un liceo così si era presentato: «Mi chiamo Sebastiano Vassalli e svolgo un mestiere abbastanza anomalo, ossia quello dello scrittore. Quando avevo la vostra età e frequentavo il liceo classico, credevo fermamente che quello dello scrittore fosse il mestiere più bello del mondo. Sempre legata a questa mia convinzione di allora è rimasta in me, immutata per tutto questo tempo, un’altra credenza: o si crede in una vita dopo la morte – e per molti versi già la fede rappresenta una forma di sopravvivenza – oppure l’unica forma tangibile di sopravvivenza alla morte data agli uomini sono le loro storie. Da ciò segue che chi racconta le storie degli uomini dovrà necessariamente avere a che fare con ciò che verrà dopo di loro, e quindi, in un certo senso, con l’eternità stessa dell’uomo».
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