sabato 4 agosto 2012
Manzoni, Flaubert, Proust, Pascoli, Céline... Rileggerli e meditare su come pensieri ed emozioni raggiungono la perfezione.
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La voce, appena velata dal­l’ombra, è un dolce solfeggio di stoffe, di pizzi. Sembra il ri­flesso, sfuggito a se stesso, di un esile strascico d’abito prestato al passato. Adesso, presa da soffice assillo, langue, urge, inclina, s’im­piglia. Trascina (o si fa trascinare?), quasi andasse a mutare l’accento, la posa, la rosa affogata nel pozzo ormai sazio, lì dove anche lo spa­zio appassisce, già orfano di fon­do. Persino il fraseggio più acceso, il consiglio che sfiora improvviso l’acuto («Intervisti la Insana, la prego, che è più brava di me…»), in lei sorprende e ci ammalia, nel suo caldo affiorare di lana. Patrizia Valduga lo sa: mentre la lingua le­nisce qualche piaga lontana, qual­che strappo a cui ago non giova, si fodera l’ugola e reclama altra cura, altro canto ingrottato nell’antro vocale, come un raro fiore rappre­so o un’anima ghiaccia, che anco­ra immobile attende, oltre il buio, l'eterno tepore del raggio. «Dolore della mente è il mio dolo­re… / Per il mio mondo… e per l’altro maggiore…». Da quali preoccupazioni o ansie di ordine teologico è afflitta? «Nessuna. Il mondo maggiore è il mondo degli altri, di tutti gli altri esseri umani che popolano 'que­st’atomo opaco del Male', per ci­tare Pascoli». I versi sopracitati risalgono a più di vent’anni fa. Da allora, è cam­biato qualcosa nel suo atteggia­mento di fronte al mondo e agli affetti personali? «Adesso sono disperatamente so­la. Le tre persone che più ho ama­to e amo al mondo – mio padre, mia madre e Giovanni Raboni – non ci sono più». «Ma credimi, tesoro, che non vo­glio rubartelo / l’osso del tuo do­lore ». Così scrive Giovanni Raboni (da «A tanto caro sangue», 1988). Il dolore, in realtà, è anche una componente essenziale della sua vita e del suo modo di essere poe­ta. Senza il dolore, esisterebbe Pa­trizia Valduga? «Il dolore è una componente es­senziale di ogni essere umano. Ma il dolore che si prova per sé, è un po’ ripugnante, è egoistico. Quello che si prova per gli altri è il vero dolore, e ci fa più grandi di noi». Raboni li ha scritti per lei questi versi?«Sì, e mi fanno male. 'Rodon gli ossi i lor ossi / non cessano di ro­dere i lor ossi'… E questo è D’An­nunzio… Mi ha trattata come un cane… E certo aveva ragione: nel mio cieco egoismo, devo essere stata insopportabile». Come vive oggi, la «donna di do­lori »?«Come sempre, come può, moren­temente ».Che idea ha dell’inferno? E del pa­radiso? «L’inferno è non sapere chi si è, cosa si ha, cosa si sa fare. Il paradi­so è Schubert, il Tristano di Wa­gner, e anche la Walchiria , Dreyer, Flaubert, Proust…». In questo mondo, ne ha già avuto qualche anticipo? In quale occa­sione? «Ogni giorno posso visitare l’uno e l’altro». Scrittore di grande talento, che come lei si è abbeverato alla fonte copiosa della letteratura barocca reinventandosi uno stile persona­lissimo, Giorgio Manganelli è auto­re di una raccolta intitolata «Centu­ria », stavolta non in versi ma in pro­sa. L’ha conosciu­to? Ha avuto modo di frequentarlo o di apprezzarne le qualità letterarie? «Me lo ha fatto co­noscere Toti Scialoja. Ci ha invitati a cena, e poi si è un po’ arrabbiato perché non abbiamo fatto che parlare tra di noi. Ha letto Bartoli? E lei conosce Pona? Cosa pensa di Lubrano? Che edizione possiede di Tesauro? E così non ci ha più fatto incontrare. Ci siamo scritti, mi pare di ricordare, ma dovrei guardare le vecchie lettere e non me la sento, mi si stringe il cuore». E di Céline, a parte i famosi tre puntini di sospensione, che cosa l’ha affascinata di più? «Mi sono laureata su Céline. L’ho amato molto. È l’io lirico narran­te a ruota libera. Oggi ce ne sono troppi in giro, e senza il suo ta­lento». Ha mai scritto testi per musica o lavorato a stretto contatto con i musicisti? «No, mai. E mi piacerebbe». Potrebbe descriverci il piacere che le deriva dalla lettura ad alta voce di composizioni in versi firmate da lei o da altri poeti? Che rappor­to ha con il suo strumento vocale? «Non mi dà piacere leggere i miei versi: dopo un po’ mi annoio, e mi viene un colpo di sonno. Invece, recitare Raboni, o Pascoli, o Man­zoni mi dà una grande gioia, la gioia di comunicare – a me prima che agli altri – pensieri e emozioni che coincidono nella perfezione della forma». Di quali poesie – sue o altrui – non potrebbe fare assolutamente a meno? Perché? «Delle mie faccio a meno con pia­cere. Di quelle dei poeti che ho ap­pena nominato, non potrei fare a meno: sono i miei fondamenti». Come nasce una sua poesia? Le affiora dapprincipio alla superfi­cie delle labbra, oppure comincia a premere impaziente sulla punta della penna? «C’è una quartina di Omar Khayyâm, poeta persiano del 1100, che dice: 'Quando sono so­brio, la Gioia mi è velata e nasco­sta, / quando sono ubriaco, perde ogni coscienza la mente, / ma c’è un momento, in mezzo, fra so­brietà ed ebrezza, / per quello da­rei ogni cosa, quello è la vita ve­ra!'. I fisici chiamano 'punto di sella' il punto in cui due sistemi contrapposti stanno in equilibrio. Il momento meraviglioso di cui parla Khayyâm è un punto di sella, fra due logiche, quella razionale della veglia e quella irrazionale dell’inconscio. Scrivo quando so­no nel punto di sella. E succede quando succede».Ritiene che il posto migliore in cui possa alloggiare una poesia sia ancora lo spazio bianco di una pagina a stampa? Che opinione ha, invece, di quello virtuale e del­le nuove opportunità offerte dal web? «Non importa con quale mezzo arrivano i versi nella mente dei let­tori: è lì che devono arrivare, è quello il loro posto, l’unico che li tiene in vita». In passato, ha fatto parte della giuria di qualche concorso di poe­sia? Che impressioni ne ha tratto? «Per la verità non sono mai stata in una giuria. Non me l’hanno mai chiesto. Sì, Alfredo De Palchi me l’aveva domandato, qualche anno fa. Ma erano versi di esordienti, e ho rifiutato».Esiste un metodo, una prassi con­divisa per misurare il talento di un poeta? «Bisogna avere letto tutti i gran­di poeti – anche i piccoli – per poter parlare con fondamento di poesia». Nel Libro delle laudi affiorano passi in cui lei se la prende, con accenti piuttosto viscerali, con­tro i giornalisti e la loro 'prosa­glia'. Li ritiene davvero così igno­ranti da non saper distinguere, tra l’altro, il valore di un poeta o di uno scrittore di razza da quello di un dozzinale imbrat­tacarte? «Sì. Non ne posso più di sentir dire 'il poeta civile Giorgio Gaber', o 'la grande poetessa Alda Merini'… E come dobbiamo definire allora Se­reni, Luzi, Betocchi? Cambiamo argomento, per favore, perché di­vento rabbiosa».Ci sono poesie che non finiscono, che chiedono di essere continuate all’infinito e di esistere persino dopo la loro apparente conclusio­ne? Le è capitato?«Non so rispondere. So che ci sono temi che tornano, ostinatamente, anche quando non si vorrebbe, come i sogni – o gli incubi – ricor­renti ».Lei non appartiene certo a quel genere di poeti che compongono versi con metodo, quotidiana­mente. Piuttosto – mi pare – ama lasciarsi trascinare dal raptus creativo, dal furor dell’ispirazione che arriva all’improvviso e poi, magari, altrettanto inaspettata­mente, tace per anni. Come im­piega il tempo in quei periodi di silenzio più o meno lunghi che se­parano un momento di intensa attività poetica dall’altro? «Ho un lavoro, come tutti: sono una pubblicista, ho delle piccole collaborazioni. E mi capita anco­ra di fare delle traduzioni. Quan­do non ho proprio niente da fare, rileggo i prediletti, e la sera bevo vino con gli amici».
 
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