mercoledì 15 ottobre 2014
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C’è da domandarsi se il quadro dipinto dai mezzi d’informazione sia realista o se non siano esigenze di tipo squisitamente retorico a produrre certe immagini di depressione cronica. È poi così vero che gli studenti guardano al futuro con paura, trepidazione, sfiducia? I dati sono perlomeno contraddittori, e lasciano molto margine alla discussione. Forse è arrivato il tempo di finirla con le lamentazioni al capezzale di un sistema che appare strutturalmente incapace di “fare sistema"” (appunto), ossia di integrarsi con gli altri segmenti della società.Il bisogno che l’Università sia funzione o cinghia di trasmissione di qualcosa (dalla Civiltà Occidentale al Mondo del Lavoro) ci pone in un’attitudine di isterica rincorsa di modelli che, una volta applicati, ci ridurranno sempre di più non solo alla periferia del mondo, ma – peggio – alla periferia delle idee. Se però ci pensiamo bene, dovremo concludere che i discorsi sulla funzione (sociale, economica, politica) dell’Università sono sempre stati molto ambigui, per la semplice ragione che l’Università, per sua natura, non è funzione di niente. Semplicemente, non è una funzione.Ciò che accomuna tutti (si può dire) gli edifici universitari è una specie di promessa rivolta alla città. Se la città è caotica, imprevedibile, disordinata, e gli eventi – successivi e sovrapposti – che determinano la fisionomia delle sue giornate sembrano definiti dal caso o comunque da un destino liquido, informe, se perfino le sue strutture pubbliche (amministrative o di governo) sembrano partecipare del suo caos col proprio tasso di lentezza, di complicazione, di burocrazia, ebbene: a tutto questo l’Università oppone un progetto che deve risultare leggibile e condivisibile fin dal suo ingresso. L’Università promette ordine, disciplina, linearità, semplicità, rigore, tranquillità. Qui le schiume, le bave del sapere che i mezzi d’informazione riversano sulla popolazione col loro tasso – spesso molto alto – di approssimazione e di errore (dati erronei, citazioni sbagliate, le ondate melmose cariche di relitti, di rifiuti, di scarti) di cui la cultura urbana non si può liberare - tutto questo s’interrompe. L’Università assicura i cittadini che i fili si possono connettere, che la natura intima delle cose, con le leggi che le governano, sarà conservata, che sotto lo strato dei pareri e delle interpretazioni che ci investono come un mare burrascoso la calma verità delle cose continua a esistere. Dietro quei muri, quelle finestre, dentro quelle aule due più due continua e continuerà a fare per sempre quattro, e il Romanzo non sarà cosa da attrici o da presentatori tv, e la Politica continua a essere (anche) una scienza, e gli agenti patogeni del corpo umano possono essere conosciuti e vinti. Una volta entrati, però, tutto questo ordine non dura a lungo. Le stanze smettono presto di essere quadrate, i corridoi smettono di intersecarsi ad angolo retto, i percorsi si complicano, le scale, gli anfratti e i ballatoi si moltiplicano. Come nella vita di tutti i giorni. Ogni Università ha i suoi luoghi oscuri, i suoi punti pericolosi, i suoi percorsi a rischio. La linearità promessa si trasforma in labirinto, le Facoltà si sparpagliano per la città, occupano palazzi, si ritirano in periferia alla corte di qualche società straniera, si insinuano in case ordinarie, e spesso per raggiungere queste sedi staccate bisogna cambiare bus/tram/metrò più di una volta. Non meno labirintica, come se uno specchio si trovasse sempre lì, a riflettere il dentro e il fuori, appare spesso la carriera dei docenti, i quali ben di rado possono dedicare un tempo congruo alla ricerca e allo studio, oppure alla didattica: troppo tempo se ne va in burocrazia, troppo nei rapporti politici, troppo nella guerra per il mantenimento delle posizioni (concorsi, dottorati, commissioni varie) o per l’avanzamento in carriera o per la coltivazione di sogni di potere. Per dirla tutta: troppo bassa è la stima che il Paese nutre nei confronti di chi tutela il suo patrimonio culturale (a meno che questo non si possa trasformare in rendita). Anche in Università, come in tutte le altre cose, chi si interessa e ama davvero la propria disciplina e a essa dedica la maggior parte delle proprie forze finisce per fare la figura – al cospetto di chi nel frattempo, partito dalla docenza universitaria, entra in politica, o siede in qualche importante consiglio d’amministrazione, o presiede o vicepresiede qualche ente pubblico – dello Scemo del Villaggio. Non vogliamo, qui, dire semplicemente che l’Università è un mondo a parte – dove per esempio le vecchie tradizioni (come la goliardia) sembrano mantenersi pervicacemente a dispetto delle generazioni e delle etnie che si succedono e della mentalità che cambia – ma che la sua origine è un’origine a parte, difficilmente riducibile alla storia della città che la ospita. L’Università non può essere ridotta a funzione della società (o dell’economia, o del mondo del lavoro). La sua forza sta nella sua totale autonomia e nel rispetto dei suoi scopi così come essa li individua dentro il suo percorso storico. Un’Università che non sia completamente libera e autonoma è un’Università completamente inutile, anche quando sembrerebbe funzionare. Fin dalla sua origine, infatti, l’Università non condivide l’indirizzo della civiltà verso una progressiva stanzializzazione. L’agricoltura che prevale sulla caccia e sulla pastorizia, la città che prevale sulla campagna, la territorializzazione delle domande (bisogni) e delle risposte (biopolitica) non la riguardano, perché la natura dell’Università non è territoriale. Niente governance per questa bizzarra istituzione affine più alla caccia che all’agricoltura, originariamente nomade, rifugio dei figli secondogeniti senza eredità, dei chierici mascalzoni. In altre epoche l’Università era zona pericolosa, gli studenti – senza famiglia, senza rendiconti – una massa di sbandati spesso ubriachi e non di rado dediti alla violenza. Per molto tempo l’Università ha rappresentato, dentro il tessuto urbano, un’area pericolosa, dove la legge poteva assumere solo la forma della carica, dell’arresto, della guerriglia. Noi lo sentiamo ancora oggi: l’Università è una specie di corpo estraneo rispetto al resto della città. Il suo scopo non è innanzitutto quello di istruire i giovani, di prepararli all’ingresso nel mondo del lavoro, di far crescere la nuova classe dirigente di un Paese. Il suo primo scopo è la pura conoscenza: il tentativo cioè di traslocare ciò che pensiamo di conoscere dall’approssimazione in cui naviga quasi sempre per condurlo alla precisione, passando dall’immagine al concetto, dalla rappresentazione alla definizione. Il suo scopo è quello di poter illuminare la realtà non “da fuori” bensì “da dentro”. Tolta questa radice di pura gratuità, nella quale consiste la sua natura profonda, l’Università perde per intero il suo scopo per essere sostituita da un avatar costoso e mal funzionante, che di norma produce per la società più problemi che soddisfazioni.
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