«A dire il vero, quei foglietti - cartoline in franchigia, margini di giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute, sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane non erano destinati a nessun pubblico». Eppure per quei versi di
Giuseppe Ungaretti, scritti per “nessun pubblico” sul Carso, nei giorni più drammatici della prima guerra mondiale, oggi succede l’imprevisto: richiede perlomeno una riflessione il fatto che tremila studenti da 250 scuole superiori di tutta Italia si riuniscano a Firenze per sentir parlare di Ungaretti e per parlarne anch’essi, in una tre giorni intitolata «Quel nulla d’inesauribile segreto». Per i Colloqui Fiorentini, organizzati ogni anno da Diesse Firenze e Toscana e arrivati alla XV edizione, quella folla di giovani in controtendenza è ormai un’abitudine, «ma il boom di presenze registrato per Ungaretti fa capire quanto questo autore sia moderno e sappia parlare alle nuovissime generazioni », commenta Andrea Caspani, storico dell’età contemporanea e direttore della rivista
LineaTempo. Oggi stesso lei ne parlerà dal punto di vista dello storico, contestualizzando le poesie più amate di Ungaretti nell’arco della Grande guerra, passando quindi dal suo fervore interventista degli inizi all’orrore per la guerra che infine aveva devastato il suo animo. «Certamente la scelta dei Colloqui Fiorentini è caduta su Ungaretti anche perché ricorre il centesimo anniversario della Grande guerra e quindi di “Il porto sepolto”, la sua raccolta di poesie scritte nel 1916 in trincea, come
Veglia, o
San Martino del Carso o ancora
Fratelli. Ma poi c’è molto di più: Ungaretti ha tutte le caratteristiche per parlare a giovani che, nel mondo d’og- gi, per molti versi vivono la loro “guerra”, stanno in nuove trincee, sono ribelli come lui e come lui cercano un senso a questa vita. Il titolo stesso della sua raccolta, “Il porto sepolto”, è indicativo: il poeta era nato ad Alessandria d’Egitto, dove il padre era sterratore nello scavo del Canale di Suez, e lì aveva saputo che nel fondale di Alessandria c’erano ancora i resti del porto antico risalente a prima dei Tolomei. Sotto le apparenze, voleva dire, c’è sempre qualcosa di profondo e vero da scoprire: questo è sempre stato il suo pensiero fondante, quello che ha agitato le sue ribellioni giovanili e appagato i suoi approdi senili. Sotto quel mare, spiega lui stesso, restano ancora i frammenti di quel grande porto, e sui frammenti si è sempre basata anche la sua poesia, così scarna ed essenziale, a volte fatta di una o due righe e il resto è pagina bianca. A Ungaretti interessa il nesso tra l’apparenza e il reale, vuole scavare fino a scoprire quest’ultimo, e proprio la guerra, con tutta la sua drammaticità, lo aiuterà in questo».
Come spiegare ai ragazzi l’appassionato interventismo di Ungaretti? E come si concilia con i versi in cui invece «è il mio cuore il paese più straziato» e «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», precari, fragili, sempre in bilico sulla morte? «Ungaretti nacque nella Belle Époque, tra le “sorti magnifiche progressive” della seconda Rivoluzione industriale, quando vigeva la visione ottimistica di un mondo nuovo, reso più comodo dall’ingresso trionfale di automobile, bicicletta e telefono. Un mondo basato sulla prospettiva del progresso e della scienza. Ma il ragazzo era anche ai margini di tutto questo, italiano abbiente in un Egitto povero, figlio delle contraddizioni di un’età cosmopolita e mondiale (ecco un altro punto di contatto con l’oggi). Così maturava una ribellione contro l’ingiustizia sociale e la tradizione, diventava ateo e anarchico. Lasciò Alessandria per Parigi, dove fu amico degli animi inquieti, primo tra tutti Guillaume Apollinaire e il mondo dell’avanguardia. Cercava il suo porto sepolto e l’occasione nel 1914 gliela diede proprio lo scoppio del conflitto, che insieme a buona parte della sinistra italiana vedeva come guerra di civiltà: il suo non è irredentismo, è desiderio di cambiare il mondo borghese che sotto un progressismo di facciata non soddisfa l’umano. Pensa che poi tutti gli uomini saranno davvero liberi. E fa di tutto per essere arruolato, così nel ’15 si trova sul Carso, dove la guerra è più furibonda».
E lì la disillusione… «Non rinnega i suoi ideali e non diventa pacifista, ma il problema è sempre quello: si rende conto che la retorica del nazionalismo copre un vuoto. Ciò che gli manca è l’umano. E lì scopre che sotto ogni uomo, soldato o ufficiale, amico o nemico, c’è un fratello, parola chiave di tanti suoi versi: in quanto tutti fragili siamo appunto “Fratelli”. Specifica in ogni poesia la data e il luogo in cui l’ha scritta per dire che è in quel momento preciso, in quel luogo, partendo da quella circostanza concreta che l’uomo può elevarsi alle domande universali sul senso della vita. In
Dannazionesi chiede come possa aspirare a Dio in quelle condizioni: «Chiuso fra cose mortali (anche il cielo stellato finirà), perché bramo Dio?». Non esprime uno stato d’animo, ma una domanda universale».
Anche nella tragedia, si intravvede sempre un varco alla speranza. «È così. Descrive corpi martoriati dei compagni in trincea, ma anche qui trova la tenue scintilla («con la sua bocca digrignata volta al plenilunio… ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita»). Ecco perché può parlare a ragazzi che non hanno mai visto la guerra, ma che oggi vivono in un mare in tempesta. Dice loro che c’è qualcosa di profondo che va evocato. Finita la guerra, scoprirà che Apollinaire è morto, e si chiude così il suo mondo utopistico dell’anarchismo. Ne esce come un uomo guarito da quelle che anni dopo chiamerà “bubbole”, le illusioni di chi crede che la guerra risolva i problemi».
E quel Dio bramato? «Lo incontrerà nel 1928 con una forte conversione, che però ancora una volta è moderna: non nasce a partire dalla tradizione, che non lo attrae, ma dall’intuizione che quella fratellanza scoperta in guerra deve avere un fondamento, e questo è Gesù. Come scriverà in
Mio fiume anche tu, nel 1940, per Roma occupata.
Fragilità e fede palpitano in quel suo appello: «Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli»… «…Ora che sono vani gli altri gridi, vedo ora chiaro nella notte triste. D’un pianto solo mio non piango più». È il suo punto d’arrivo. Quello che cento anni fa, tra i compagni morti, aveva intravisto come “inesauribile segreto” e da allora inseguito».