venerdì 15 aprile 2022
I massacri di cui è costellata la storia hanno prodotto sepolture di massa e quelle di Bucha sono l'ultimo caso. Una brutalità che nega pietà e lutto. Ma la fossa è anche il luogo della risurrezione
Il lavoro di riesumazione nelle fosse comuni a Bucha

Il lavoro di riesumazione nelle fosse comuni a Bucha - ANSA

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La storia dell’uomo è una via crucis di fosse comuni. Si creano perché l’uomo, solo fra tutti gli appartenenti al regno animale, non uccide solo per alimentarsi o per autodifesa; è uno sterminatore di massa il quale uccide anche solo per uccidere e ha poi due necessità particolari, o di occultare lo sterminio dei propri simili, soprattutto quando verrebbe riprovato per aver ucciso innocenti o inermi; oppure di rimanere nei luoghi dello sterminio per cui deve smaltire – si perdoni l’orrore “industriale” del verbo “smaltire” – cadaveri in quantità, che per la loro decomposizione renderebbero inabitabili quei luoghi. Chi si occupa di storia conosce queste due matrici. Fa rabbrividire esporle in modo quasi neutro, associando occultamento di cadaveri e loro non decomposizione all’aperto, ma questa è l’unica ottica per parlarne. Anzi, se un dato storico d’attualità dovessimo qui richiamare, diremmo che proprio in Ucraina dopo il 1940 per primi i nazisti dovettero affrontare il problema; le fosse comuni, fatte scavare a mano, richiedevano tempo. Non bastavano. Nei plotoni d’esecuzione c’era chi sveniva per dover sparare, sul ciglio di esse, a donne, vecchi e bambini; soprattutto ci voleva troppa nafta, poi, per bruciare i cadaveri. Da qui nacquero le camere a gas e gli inceneritori, nei campi di sterminio tedeschi. Il gas zyklon b fu salutato come un progresso tecnologico verso le soluzioni finali; gli inceneritori come un annullamento, nell’aria, di tutto ciò che era avvenuto prima. Come romanziere mi sono occupato di questo tema negli ultimi 20 anni, per tre romanzi dedicati alla guerra andando a visitare, prima di cominciare a scrivere, luoghi di fosse comuni – remote o recenti, grandi o piccole, note o meno note; visite avvenute non senza partecipazione emotiva.

Francia, Bourges, 2003

La prima fossa comune che ho visitato per il romanzo sulla guerra gallica, dopo 2mila anni non recava più traccia, visibile, di cadaveri e non era stata neanche scavata dall’uomo – non sarebbe stato possibile farlo, nel 52 a.C., al tempo di Cesare, tanto immenso avrebbe dovuto essere uno scavo capace di raccogliere quarantamila corpi; la fossa era già pronta, apprestata dalla natura, in uno strapiombo a lato dell’antica città gallica di Avaricum, l’odierna Bourges. Oggi lo s’intuisce a fatica visitando la parte più alta e antica dell’abitato, che di quello strapiombo e delle sue adiacenze conserva qualcosa nell’improvviso sprofondare di una cantina, di un sotterraneo, di una cripta come in una precedente voragine, in seguito colmata, sopra i morti, di terra, la quale ha appianato il suolo. Ma in queste settimane del 52 a.C. le legioni romane, ridotte alla fame e con tentativi di ribellione a Cesare, da mesi assediavano invano Avaricum-Bourges, la città più importante della Gallia. La espugnarono appena Vercingetorige la sguarnì di truppe di difesa, decidendo di lasciarla ai romani. Rimasero solo 40mila donne, vecchi e bambini. I romani ne passarono le prime migliaia a fil di spada; poi, piegatesi o staccatesi le lame per il troppo lavoro, ammassarono tutti sul bordo dello strapiombo e continuarono lì, frantumando loro il cranio a colpi di mazza, prima di buttarli giù. «Non risparmiammo né donne né vecchi né bambini; di 40.000 si salvarono in meno di 800, i primi riusciti a fuggire dalla città» scrive Cesare nei Commentarii de bello Gallico ( VII, 28, 4-5).

Italia, Pietransieri, 2005

Sono salito ai Lìmmari, la frazione più alta del paese di Pietransieri presso Roccaraso, prima di iniziare a scrivere un romanzo sulla guerra, nel ’43-’44 combattuta qui, lungo la linea Gustav, tra tedeschi e angloamericani in risalita dal sud Italia. Non c’era propriamente una fossa dove buttare i cadaveri, ma si conoscono benissimo i punti dove, nel novembre del ’43, i tedeschi uccisero centrotrenta vecchi, donne e bambini, rei di non essere sfollati, come imponeva un’ordinanza di Kesselring. E accadde un fatto stranissimo. I morti vennero lasciati insepolti, nessuno osava salire lassù, ma se ne impietosì il cielo che li coprì fino a primavera con nevicate abbondantissime, le quali presero a cadere proprio dalla sera successiva alla strage. Si salvò solo, ferita, una bambina di 7 anni, Virginia Macerelli, oggi quasi novantenne, finita sotto ai cadaveri della madre, della sorellina e del fratellino.

Russia, Smolensk, 2009

Sono stato da quelle parti, ma non sono voluto andare nella foresta di Katyn, un tempo al confine tra Polonia e Unione Sovietica e oggi in territorio russo. Lì ci sono fosse famose. Nel 1940 i sovietici trucidarono circa 23mila esponenti dell’esercito e dell’intellighenzia polacchi; intendevano decapitare della classe dirigente l’intera Polonia, all’epoca spartita, col patto Ribbentrop-Molotov, tra Hitler e Stalin. Dei 23mila, 8mila erano ufficiali, il resto era composto da non belligeranti; molti uccisi in lontani campi di prigionia vennero semplicemente portati coi camion a Katyn e scaricati nelle fosse. Ma presto si confermò una criticità ricorrente nelle stragi da tenere nascoste, e cioè che il trasporto dei cadaveri era un problema superiore alla loro “creazione”; si preferì allora portare vive a Katyn le vittime e sparargli direttamente alla nuca, lì, nelle fosse. Alla loro scoperta durante la guerra, i sovietici dissero che erano stati i nazisti e viceversa, secondo un rituale che si ripete. Solo nel 1990 la Russia ne riconobbe ufficialmente la “paternità”.

Bosnia, Zaklopaca, 2011

Conosco la ex Iugoslavia, vivo dal-l’altra parte dello stesso mare Adriatico, di fronte alla Bosnia. Non sono andato laddove c’è la fossa più tristemente nota del conflitto serbocroato- bosniaco del ’92-’95, Srebrenica, dove nel 2005, 8.400 maschi bosniaci dai 16 ai 60 anni vennero uccisi e ammassati nelle fosse dai cetnici serbi o filoserbi, mentre i caschi blu olandesi dell’Onu giravano la faccia dall’altra parte. Ci sono molte altre fosse “minori”, con qualche centinaio di cadaveri in Bosnia, e a me serviva una delle prime, del ’92, anche se era “piccola” e quasi sconosciuta, perché da lì prendeva le mosse il mio romanzo. Così sono andato a Zaclopaca, un paesino delle kraine a confine con la Serbia meridionale, dove nel maggio ’92 circa cento civili bosniaci disarmati furono uccisi dai cetnici, per poi bruciarne i cadaveri con la benzina, farli a pezzi con le ruspe, affinché non fossero riconoscibili, e buttarli nelle fosse.

§§§

Ci fermiamo qui col racconto. Esistono moltissime altre fosse comuni in ogni parte del mondo, la massima parte ignote, a scandire dall’antichità la storia dell’uomo. Ma una cosa va detta: la religione cristiana contempla, e spesso, le fosse. Sono centrali: sono il punto di caduta, in ogni senso, della umanità – parola che nel suo etimo secondo alcuni richiama l’humus, la terra. Per i credenti, dalla fossa, de profundis Dio raccoglierà la voce dei seppelliti. Il Salmista esulta, paragonando la fossa a un letto che custodisce il corpo, sicuro della resurrezione: «Di questo gioisce il mio cuore/, esulta la mia anima/ e il mio corpo riposa al sicuro,/ perché non abbandonerai la mia vita nella fossa,/ né lascerai che il tuo santo veda la corruzione».

Così, anche Ezechiele, il profeta della resurrezione, sulla fossa pronuncia l’oracolo del Signore: «Aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete. L’ho detto e lo farò. Oracolo del Signore». Così Paolo, l’apostolo della resurrezione, (Filippesi, 3,11) per le fosse usa una parola particolare, in greco exanastasis (che non è la sola “anastasi” o “risurrezione”, o “il rialzarsi”: è qualcosa di più, con quella preposizione iniziale “ ex”); intraducibile in italiano, vuole significare quasi una “de-resurrezione”, un sollevarsi “venendo fuori dai morti”, giacché nell’ottica metafisica della risurrezione tutto il mondo è una fossa.

A lui, ripetendo parole dell’Antico Testamento, fa eco anche un profeta del nostro tempo, il poeta gallese Dylan Thomas (1914-1953) il quale nella poesia più famosa urla – lui, laico e non credente – il suo bisogno di risurrezione paragonandola a un parto, a una nascita, col riemergere dalla terra – per prime, come da un ventre materno – delle teste dei morti, splendenti come stelle, nella pienezza della nuova vita: «Le teste si faranno strada fra le margherite,/ irromperanno nel sole, fino ad oscurarlo/ e morte non avrà alcun potere».

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