lunedì 15 settembre 2014
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​Tutti in piedi. Applausi per quindici minuti. Il sipario che si apre e si chiude sette volte. Al Teatro Lirico di Cagliari ogni recita di Turandot finisce come i Salmi: in gloria. Non solo per i cantanti e il direttore d’orchestra, ma perché il pubblico si sente un po’ a casa nella Pechino di Giacomo Puccini che qui ha un tocco di Sardegna. Ci ha pensato lo scultore cagliaritano Pinuccio Sciola che, per il suo debutto in un allestimento operistico, si è affidato alle rocce dell’isola che già ha trasformato in “pietre sonore” sparse per il mondo e che sul palcoscenico ha usato per disegnare la città imperiale. «È un assaggio di ciò che potrebbe dare ed essere Cagliari se venisse scelta come la Capitale europea della cultura nel 2019», annuncia il soprintendente Mauro Meli.Certo, sarebbe un errore fermarsi qui al Lirico per capire la città. Come sarebbe riduttivo limitarsi agli otto chilometri della spiaggia del Poetto che attrae nel golfo degli Angeli mezzo milione di turisti all’anno. O risulterebbe fuorviante dire che Cagliari è soprattutto quella che, per una manciata di scrittori, fa da culla alla Nouvelle vague sarda. O quella del rione di Castello con le sue terrazze sul porto, di Stampace con le sue storiche sette chiese, della Marina con le tipiche trattorie (anche se dallo scontrino scopri che il proprietario è cinese). O ancora quella del distretto digitale che conta cinquemila addetti.Meglio seguire i passi di Paolo VI e non voltare la faccia all’“altra” Cagliari. Che è, per esempio, quella di Sant’Elia, il quartiere affacciato sul mare che nel 1970 Montini scelse come prima tappa del suo viaggio. Chi non è nato qui associa il nome allo stadio comunale. In realtà, poco più in là, c’è il vero Sant’Elia della «gente umile e povera». Ieri pescatori. Oggi chi popola gli anonimi casermoni sorti per accogliere gli ex detenuti dove uno su quattro – fra i 12mila residenti – «sopravvive grazie allo spaccio», riferiscono le cronache locali.

«Cagliari Capitale della cultura? Ma davvero?», chiede stupito l’eclettico parroco don Giampiero Zara. La chiesa è color sabbia anche se le mura interne hanno le sfumature del mare. Il progetto di candidatura ha eletto l’agglomerato a simbolo del riscatto che «una cultura partecipata può innescare», spiega l’assessore Enrica Puggioni. Così vengono in mente le parole lungimiranti di Paolo VI che qui aveva detto: «Il benessere degno di un uomo deriva dalle parole, cioè dalle idee, dai principi, dai buoni ragionamenti». Funzionerebbero bene come slogan della candidatura che nell’“altra” Cagliari potrebbe trovare il migliore punto di forza. Perché, se è vero che negli anni l’Unione europea ha preferito assegnare il titolo a città ripiegate su se stesse e senza precisi orizzonti – come Marsiglia o Essen –, allora la “metropoli” della Sardegna ha le carte in regola per prevalere sulle rivali. Sconta, però, la sua separazione che diventa quasi prigionia.Cagliari è l’ultima fra le sei città in lizza ad aver iniziato l’avventura. «Con la mia elezione a sindaco siamo partiti. Era il 2011», racconta Massimo Zedda. Trentasei anni, a capo di una coalizione di centrosinistra, osserva il mare che scorge dalle finestre del municipio. «Vogliamo imprimere una svolta. Ma ci siamo accorti che la nostra idea di rigenerazione non può basarsi soltanto sugli interventi urbani o sulle infrastrutture. Serve vitalizzare la città». Ecco la corsa europea che, però, viene guardata con distacco dalla città. Nel bastione di Saint Remy i turisti preferiscono fotografare il porto piuttosto che gli striscioni della candidatura circondati dalle chincaglierie di un ambulante abusivo. Per vincere l’indifferenza si è scommesso sui musei aperti, la Notte bianca digitale, il Bibliobus e persino sugli asciugamani di “Cagliari 2019” distribuiti al Poetto.«Questa è una città policentrica. Non c’è una piazza o una via dove si passa tutti i giorni. Perciò puntiamo sulle periferie che sono i fulcri del progetto», spiega il milanese Massimo Mancini arruolato ad aprile come direttore artistico. Ed è nata l’idea dei “domicili artistici” nelle zone dimenticate. «Creativi del continente – spiega l’assessore Puggioni – vivono qui alcuni mesi per produrre cultura in loco. Non possiamo limitarci a staccare i biglietti dei musei». Quindi si torna a Sant’Elia dove si è già sperimentato un “domicilio”. «Per due mesi è rimasta fra noi la regista Marinella Senatore», racconta la presidente dell’associazione di donne Sant’Elia viva, Maria Rita De Agostini. Il risultato è un film intitolato Piccolo caos in cui gli attori sono i residenti. «Per vincere il degrado – continua la presidente – occorre battere l’ignoranza. E ben venga la Capitale della cultura».

Del resto l’“altra” Cagliari è lo specchio più autentico della città. Una città dove col suo hinterland sono ammassate 500mila persone (un terzo della popolazione sarda), dove un giovane su due è senza lavoro, dove la sua atmosfera decadente tocca l’anima. E soprattutto l’“altra” Cagliari narra una città sconvolta dalla “catastrofe antropologica” che nell’ultimo mezzo secolo ha alterato stili di vita e modi di pensare, figli di quell’“essere isolani” che non è soltanto un dato geografico ma anche un connotato psicologico e un elemento costitutivo dell’identità collettiva. «Sì, viviamo una crisi di senso», sostiene lo scrittore Salvatore Mannuzzu, patriarca della nuova letteratura sarda. Sta concludendo un saggio che ha per titolo Il fantasma della Sardegna. «Il fatto di essere un ’ichnussa, un’“impronta” in mezzo al Mediterraneo, ha portato al radicarsi di una forte immagine di sé che è anche la molla della vivacità di penne a cui assistiamo negli ultimi anni. Però affrontiamo la contemporaneità con fatica. E qualcuno rispolvera il motto A foras sos continentales, “Fuori i continentali”, che oggi non ha tanto un valore politico quanto costituisce un alibi per rifiutare il proprio tempo». Sarà anche per questo che il direttore artistico parla di «fili della memoria e del futuro da srotolare e riannodare con sapienze lontane e competenze innovative». Il simbolo di “Cagliari 2019” è un tessuto che rimanda a «una città che vuole disegnare nuovi scenari» e si ispira all’artista Maria Lai. La versatile mente di Ulassai sarà protagonista di una mostra curata dallo stilista Antonio Marras. «Cagliari è porta del Mediterraneo e terra di scambi eterogenei – spiega lo stilista –. La definirei la nostra Alessandria d’Egitto. In fondo le nostre radici sono da ricercare nella mescolanza di diverse culture che fanno dell’isola una realtà carica di contraddizioni; un’isola non risolta: né felice, né sconfitta, sofferta e combattiva. Una realtà a stracci e toppe, come il mio lavoro».Marras non ha lasciato la Sardegna. «Ma la mancanza di lavoro – avverte l’arcivescovo di Cagliari, Arrigo Miglio – produce un esodo forzato che si trasforma in enorme danno per la comunità». La Chiesa locale appoggia la candidatura. «Perché può aiutare a prendere coscienza del valore fondamentale della cultura», sottolinea Miglio. Qui il sacro scandisce ancora i ritmi: lo dimostrano la festa del patrono sant’Efisio o i riti della Settimana Santa d’impronta spagnola. «Da noi il Vangelo è arrivato attraverso i poveri e gli esiliati: una fede che ha segnato una mentalità cristiana. Conta anche il carattere dei cagliaritani che descriverei come aperti, affettuosi e accoglienti».

 

La Curia è ospitata nel palazzo del Seminario, quartiere di Is Mirrionis, e ha lasciato Castello dove si trova la Cattedrale. Il complesso è per metà uno studentato universitario. «Due terzi dei 30mila iscritti al nostro ateneo sono fuori sede», chiarisce il rettore Giovanni Melis. Le statistiche dicono che crescono i laureati ma calano le matricole. «Come isola soffriamo la distanza dai grandi centri culturali», prosegue il docente di economia. E soprattutto la disoccupazione. «Ecco perché vogliamo formare alla cultura d’impresa con proposte innovative come i Contamination lab dove gli studenti si confrontano con i capitani d’azienda».Il nuovo volto del “fare” cagliaritano è rappresentato da Tiscali, il colosso del web che dal 1998 ha fatto della città un avamposto smart. Il suo campus sembra uscito dalla Silicon Valley. Mille dipendenti. Un asilo aziendale. E decine di opere d’arte nei corridoi. «Non considerateci una cattedrale nel deserto – tiene a ribadire la figlia del fondatore, Alice Soru –. Anzi, siamo la prova che Cagliari non è unicamente la città dei camerieri, dei venditori di souvenir e dei dipendenti pubblici». Un angolo del complesso ospita sedici start up. «È un esempio di come siamo aperti all’innovazione», dice Alice. Certo la Rete non ha bisogno di aerei per collegarsi al continente. «Ma la candidatura vuole proprio farci uscire dall’isolamento», rivela il sindaco. Magari immaginando che Cagliari diventi la Bilbao italiana. «Il capoluogo della Biscaglia – sogna l’artista Pinuccio Sciola – era poco o niente prima del Guggenheim Museum. Occorre che la cultura parli all’uomo di oggi perché un luogo possa emanciparsi. Ed è la via che deve imboccare la città».

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