giovedì 2 agosto 2012
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«La cosa peggiore è voltare la testa quando si vede qualcosa di sbagliato. Specialmente se si sa che lo è. A ventun anni ho già visto troppe guerre e mi è spontaneo chiedermi certe cose. Ho scritto la canzone perché il modo migliore di rispondere a queste domande è iniziare a porsele davvero: tutti». Bob Dylan presentò così nel 1962 Blowin’ in the Wind: canzone divenuta manifesto delle lotte per i diritti umani degli anni Sessanta, di quelle per la pace dei decenni successivi, della ricerca di senso dell’umanità tutta. E brano che fece di Dylan punto di riferimento della canzone d’autore mondiale, fin dalla sua prima proposizione dal vivo al Gerde’s Folk City di New York il 16 Aprile ’62, passando per la sua incisione da parte di Peter, Paul and Mary (un milione di copie vendute) e giungendo a quella di Dylan stesso nell’Lp The freewheelin’ Bob Dylan del maggio 1963 (venduto ancora oggi a go-go). Poi, Blowin’ in the wind è stata incisa da centinaia di artisti (dalla Dietrich a Tenco, dalla Romania al Brasile), è entrata nella "Hall of fame" dei premi Grammy e cinquant’anni dopo mantiene intatte carica e fama, con le sue domande senza tempo. Ma il punto del brano non sono le domande, bensì la risposta: ed è il dibattito su essa che lo rende ancora attuale e fonte di discussione ben oltre la dimensione artistico-musicale. Perché è un’apparente non-risposta: «Amico mio, la risposta la sta soffiando il vento».L’eco avuto in più ambiti da Blowin’ in the Wind la rende un caso molto particolare: però il suo autore, esplicitamente senza un credo, altrettanto esplicitamente era alla ricerca di valori. Tanto che in un’intervista disse: «Non capisco cosa attragga le persone in Cristo», ma anche: «Quanto Egli dice ne fa leader senza tempo»; e ancora: «Impegno dell’uomo è vivere, non credere», e subito dopo: «Credo all’amore che penso vincerà ogni cosa». Era un «amore» declinato certo nel concetto di «impegno», per lui superiore alla fede, e dentro una ricerca tormentata: però è evidente che una spiritualità di Dylan esiste. E non è invenzione che Blowin’ in the Wind, al di là di taluni utilizzi pretestuosi sempre in più ambiti (come inno protestante, scandita in cortei violenti, ma anche nelle "messe rock"), abbia un tessuto vicino alla fede cattolica. E tralasciamo pure, anche se non è indizio da poco, che la melodia venga da uno spiritual (No more auction block); passiamo pure sopra agli appunti del dylaniano Michael Gray, che nota come domande e stile del testo sembrino riprese da Ezechiele («All’epoca, Bob leggeva le Scritture e ne incorporava lo stile»); mettiamo da parte anche lo studio recente di "Cultura Cattolica" che mostra evidenti analogie fra i versi di Dylan e la domanda base della riflessione francescana («Quid animo satis?», cosa soddisfa il cuore umano?). Stiamo solo al testo in sé: anche se la sua "non-risposta" pare sia affermazione di relativismo, Dylan sosteneva di non voler chiudere le prospettive dell’uomo, bensì aprirne gli occhi. E quindi è ovvio contenga anche scetticismo e impotenza, che colgono l’individuo di fronte a errori e orrori: ma vi è pure, e dichiarata, la voglia di trovare a essi un senso. Di più: vi è cantato il volerlo trovare insieme agli altri (<+corsivo>my friend<+tondo>, amico mio, con coscienza di un’umanità comune), e il vento è soggetto di un verbo mai coniugato al passato. Si rimanda a un "oltre" esistente (Dylan disse pure: «Sarebbe deprimente se pensassimo che non c’è nulla oltre il materiale») in cui le domande possono trovare risposta. Ma una risposta vera perché, se Dylan fosse stato relativista o nichilista, non avrebbe avuto senso per lui neppure porre le domande. E se tale risposta resta comunque "aperta", è solo perché egli mette in gioco in modo corretto il proprio ruolo di artista: stimola e non predica. Anche per questo Blowin’ in the Wind resta, cinquant’anni dopo, la vetta più alta della capacità del pop di porre all’uomo domande esistenziali: perché tali domande (purtroppo) resistono, e perché resta sempre nostro impegno di uomini aprire occhi e orecchie, come Dylan invitava, per cercarne la risposta. Poi, un cattolico la troverà probabilmente nel discorso fatto (proprio sul brano) da papa Wojtyla nel 1997 al Congresso eucaristico di Bologna, prima di assistere all’esibizione dello stesso Dylan. «Quante strade? Una sola, Cristo. Il vento? C’è un vento malvagio, ma c’è il vento dello Spirito». Mentre altri invece troveranno le loro risposte altrove: anche se gli indizi succitati che rimandano ad una vicinanza con la riflessione cristiana sono, comunque, chiari. E forse ce ne siamo scordati uno: Johnny Cash. Aveva conosciuto dipendenze e prigione e. a un certo punto. mise la propria arte al servizio della fede: senza esitare a cantare canzoni altrui, se vi ravvisava quei valori che dopo lungo travaglio aveva capito e scelto. Non avrebbe mai cantato Blowin’ in the Wind, Johnny Cash, fosse stato davvero brano nichilista o (come scrivevano certi giornali) l’1-0 del relativismo sui dogmi. Se le domande di Dylan, in quel brano, non fossero state analoghe alle sue. E proprio ieri, presentando il suo prossimo album, Tempest, Dylan ha dichiarato a "Rolling Stone": «Volevo fare un disco intenzionalmente, specificatamente religioso».
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