domenica 22 marzo 2009
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Nel deserto monsignor Claude Rault si sente a casa. Lascia regolarmente Ghardaia dove risiede – «il luogo delle mie assenze» – e si mette in strada per visitare le piccole comunità cristiane disseminate sul territorio. Più di 800 chilometri fino ad Adrar, con una sosta a El Golea e Timimoun. Talvolta una tempesta di sabbia o uno uadi dalle acque minacciose lo costringono a fermarsi. Durante il viaggio incrocia dromedari che masticano cespugli spinosi, asini imperturbabili, greggi di montoni e capre riottose, autisti di camion in panne, nomadi diretti ai loro accampamenti. Il paesaggio cambia a seconda del luogo. Terribile e temibile come sa esserlo l’Hoggar, con i suoi picchi verticali. O di una bellezza sensuale come le dune di sabbia del Tassili. Ma che sia luminoso o sia grigio come un giorno di prova, Claude Rault si sente «in armonia». Quando gli capita di parlarne, prendendosi tutto il tempo, o quando lo evoca nel libro che ha appena pubblicato ( Désert, ma cathédrale, Desclée de Brouwer, 202 pagine, 19 euro), è per far risuonare una fede poetica e umanista. «Il deserto – afferma – mi riconduce alla mia piccolezza e al tesoro che porto dentro di me. La parola interiore vi riecheggia. La preghiera più bella è quella recitata così, muti e silenziosi, tra sé». Poi aggiunge con voce mite: «Il deserto è anche invito a contemplare la profondità di quanti gli danno un’anima. Attraversarlo significa essere accolti. L’ospitalità è sacra. L’ospite è l’inviato di Dio e come tale viene trattato. Tayeb, un padre di famiglia con molti figli, in una notte fredda e piovosa incontrò un uomo senza dimora. Lo ha tenuto con sé per undici anni! E insieme c’è la pazienza, elevata al rango di virtù religiosa». Ma Claude Rault non può parlare del Sahara senza ricordare che per molti è anche «un muro». Ne sanno qualcosa i migranti arrivati dalla Nigeria, dalla Liberia, dal Camerun, dal Congo o da altri Paesi, che lo affrontano per raggiungere le coste del Mediterraneo. Così come i 160 mila rifugiati saharawi della regione di Tindouf, per i quali il deserto è «una grande prigione». Di tale realtà si fa testimone presso le Conferenze episcopali d’Europa, affinché premano sui governi. Ai suoi occhi si tratta di un «dovere di presa di coscienza politica su vasta scala». Un’altra realtà segna la vita di Claude Rault: l’islam. Questa religione, da lui vista come «un ideale di vita e un modo d’essere davanti a Dio e nella società, a rischio di lasciare un po’ in ombra le sue deformazioni», è entrata nella sua vita in un modo che «non può essere attribuito al caso». I l primo musulmano che ha incontrato era un venditore di tappeti: percorreva la campagna della Normandia e si fermò nella fattoria di famiglia dove gli offrirono un caffè «non corretto». A quel tempo i migliori giocatori della squadra di calcio locale erano lavoratori nordafricani. Più tardi, nel dicembre del 1961, Claude Rault scopre la realtà della vita degli algerini durante una conferenza dell’Abbé Pierre nel corso della quale monsignor Mercier, vescovo del Sahara, presenta un filmato sulla propria diocesi. «Al termine della proiezione l’Abbé Pierre ci disse che avevamo il dovere di aiutarli a raggiungere un grado di sviluppo Q decente, altrimenti li avremmo visti venire in Francia a cercare quello che non trovavano a casa loro», ricorda colui che è succeduto a quel vescovo. «Le sue parole profetiche mi risuonano nell’orecchio». Ma l’incontro determinante avvenne in Canada. Studiava teologia nel convitto dei Padri Bianchi a Ottawa. «Un confratello tunisino tenne una conferenza sull’islam e i musulmani. Parlò della sua esperienza in un modo così tranquillo e appassionato che stuzzicò la mia curiosità. Lo rividi nei giorni successivi. Seppi che aveva scelto di tornare alla vita laica. Morì poco dopo, in un incidente stradale. A quel compagno di pochi giorni devo la mia vocazione all’islam». uella vocazione lo porterà in Algeria. Vi approda nel settembre del 1970, con la sua due cavalli, e si ritrova subito assistente in un centro di formazione professionale gestito dai Padri Bianchi nei locali dell’ex noviziato. L’Algeria è un grande cantiere. Come molti, padre Rault improvvisa. E funziona, nonostante la paura «inconscia e insidiosa» dell’algerino «instillata nel cuore dei giovani durante la leva militare». Di quella paura lo libererà la madre di uno dei suoi allievi, Akly. «Il padre di Akly era stato ucciso dall’esercito francese nel 1962. Otto anni dopo, la moglie mi ha aperto la sua casa». Da allora «nulla sarà più come prima». E quell’adattamento che caratterizzerà la sua vita sarà legato alla storia dell’Algeria. Istruttore in un centro di formazione professionale dei Padri Bianchi a Ghardaia, dopo le nazionalizzazioni diventa docente d’inglese in un collegio di ragazze diretto dall’imam della moschea di Touggourt, poi insegnante supplente a Ouargla, prima di diventare – in mancanza dei titoli necessari – apprendista da un artigiano di ottoni a Ghardaia. Nel 1994, mentre l’Algeria è trascinata in una spirale di violenza e la Chiesa si trova nell’occhio del ciclone, vive in un intermezzo di lotta dopo aver subito l’operazione a una gamba. «Un chirurgo mi aveva tranciato il nervo femorale. Ho vissuto nove mesi di paralisi e dolori. In fondo, però, non era la gamba a farmi male, ma l’Algeria. E quando ho recuperato l’uso dell’arto ho capito che se il nervo della gamba poteva tornare a vivere, anche il nervo vitale dell’Algeria poteva farlo. Ormai portavo la speranza incisa nella mia carne». Oggi vescovo di Laghouat, monsignor Rault, che ha «fatto voto d’instabilità», si lascia strapazzare dagli eventi. Come avvicinare i più svantaggiati, ma anche i giovani diplomati dimenticati dalla manna petrolifera e senza lavoro? Come venire in soccorso dei migranti dell’Africa subsahariana? Dove investire le energie? «I nostri limiti non possono essere un alibi all’immobilismo». E poi: come rinnovare le comunità cristiane, eredi di Charles de Foucauld e del cardinale Lavigerie? Quali scelte di futuro? Come trasmettere l’eredità spirituale e umana? Come continuare a «fare carovana»? La tempesta che da parecchi mesi investe la Chiesa d’Algeria – divieto di fare sostegno scolastico in dati luoghi o di celebrare in certe basi petrolifere per i cristiani espatriati, complicazioni burocratiche, difficoltà a ottenere i visti – fa dire al vescovo del deserto che in Algeria «la Chiesa sta superando una nuova tappa». I suoi discorsi, come il suo sguardo limpido, restano improntati a un’irriducibile serenità. «Ciò che succede non è frutto del puro caso, ma deriva da un’intenzione precisa. Con la nostra presenza disturbiamo qualcuno e non mancano di farcelo sapere. Ma molti algerini ci esprimono amicizia e solidarietà. La cosa migliore è aspettare, senza piegare la schiena. Più che mai, siamo nelle mani di Dio!». arla a lungo, con parole intense, di Gesù. Confida che cerca di mettersi al passo «di colui che è stato, più di tutti, l’uomo dell’incontro», «che ha sempre lasciato libero l’altro» e che, con la sua vita, ha rivelato Dio «non come una verità a cui credere e da proclamare, come una morale da seguire, ma innanzitutto come un’esperienza da vivere». «In Algeria non ci è concesso rivelare Cristo attraverso la predicazione. È un serio limite, ma forse anche una felice provocazione. Il nostro mondo soffre di una tale inflazione della P parola! Gridare il Vangelo per tutta la vita, per riprendere un’espressione cara a Charles de Foucauld, ecco la nostra vocazione oggi in Algeria. Essere presenti a mani nude. Vivere con tutti nel nome della gratuità dell’Amore di Gesù. Il domani non ci appartiene». Nell’ambito di tale vocazione, Claude Rault si sente chiamato a vivere con i musulmani algerini una solidarietà concreta e quotidiana, ma anche spirituale. Nel 1979 ha fondato con Christian de Chergé, monaco di Tibhirine, il gruppo Ribat Essalâm ('Legame della Pace'), che riunisce cristiani e musulmani che condividono «una identica ricerca di Dio riconosciuto come il Dio di tutti», mettendosi in gioco nell’incontro con l’altro «nella verità di ciò che è». Oggi, per motivi di calendario e di distanza, non può più partecipare a tutti gli incontri del piccolo gruppo. «Lo vivo come un invito ad approfondire la mia vocazione in un ribat interiore, nutrito dagli incontri nel quotidiano, dai legami di fraternità che spesso affondano le radici in Dio». (traduzione di Anna Maria Brogi)
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