sabato 30 aprile 2016
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«Fin dai primi colloqui con i miei colleghi del tribunale mi sono fatta la convinzione che il processo non sia altro che una macabra messa in scena per mascherare una irrevocabile decisione già presa in partenza. Comunque vadano le cose, il danno sarà inevitabile: se la condanna sarà di morte, com’è quasi certo, si dirà che il Duce è stato così disumano da far uccidere il marito di sua figlia e padre dei suoi nipoti; e se non sarà di morte si dirà invece che ha voluto salvare, solo perché suo parente, un uomo che meritava dieci volte di morire». Così scrive uno dei componenti del tribunale speciale che l’8 gennaio 1944 diede inizio a Verona al processo contro 18 membri del Gran consiglio del fascismo con l’accusa di alto tradimento. Ovvero, aver apposto la loro firma all’ordine del giorno Grandi del 25 luglio 1943 con il quale si chiedeva al re di prendere in mano le redini dello Stato, esautorando Mussolini e dando via libera al governo Badoglio che portò all’armistizio dell’8 settembre. Ora il diario di uno dei protagonisti di quel processo viene reso disponibile a storici e appassionati: Le fucilazioni del processo di Verona. Giustizia o vendetta? La testimonianza-accusa di un giudice soldato (Pietro Macchione Editore, pagine 272, euro 20,00), dà la possibilità di conoscere quei fatti dalla penna di Renzo Montagna, classe 1894, fascista fino all’osso, generale dell’esercito, dopo la guerra assolto in Cassazione da una precedente condanna per «motivi politici», infine morto nel 1978. Queste pagine gettano dunque nuova luce sul processo di Verona. E confermano alcuni dettagli sull’evento e sul dopo. Come, ad esempio, la voce che Mussolini avrebbe voluto salvare gli imputati di Verona. In un incontro con lo stesso Duce dopo la fucilazione di 5 degli imputati, Montagna si sente dire dal suo interlocutore: «Il modo con il quale alcuni di loro sono morti, dimostra che essi non erano dei traditori». E nello stesso colloquio Mussolini – riferisce Montagna – affermò che non gli vennero fatte pervenire le domande di grazia dei condannati proprio perché li si voleva eliminare, e basta: «È stato un arbitrio e un’azione malvagia quella di non farmi giungere le domande di grazia. Coloro che s’adoperarono perché ci fossero quelle condanne, sono gli stessi che impedirono poi alle domande di giungere a me. Si voleva che gli imputati fossero fucilati e si temeva che io li graziassi ecco il vero motivo». Nel suo diario Montagna evidenzia in più passi l’ingiustizia aleggiante nel processo che si tenne a Castelvecchio. Ad esempio nella formazione della corte: «Penso che per stabilire la pena in un processo in cui è in gioco la vita di uomini i giudici debbono essere persone di indiscussa serietà e con l’animo libero da qualsiasi sentimento che non sia di giustizia. Al contrario, i giudici sono stati scelti con criteri del tutto opposti tra i fascisti più accesi e fra quelli che si ritiene abbiano il dente avvelenato per quel che han sofferto in causa del colpo di Stato provocato da quel “pronunciamento” del Gran Consiglio contro il Duce». E durante il processo Montagna ha la sensazione che lo svolgimento sia già deciso: «Ritengo che il Presidente abbia avuto degli ordini; mi è stato riferito che è stato chiamato diverse volte al Partito e che anche il comandante della Guardia è venuto da lui. Ma qui si va veramente in cerca della verità affinché la giustizia possa essere giusta? No!». © RIPRODUZIONE RISERVATA Pubblicati per la prima volta gli appunti di Renzo Montagna, nella giuria che condannò a morte Ciano e i gerarchi “traditori” Con conferme e novità
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