venerdì 6 dicembre 2013
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Trecentomila chilometri. Uno più o uno meno, tanto non ci sono muri, fili spinati o torri di controllo a segnare le frontiere. Al loro posto, cartelli sgrammaticati, appesi ai pali della luce e ai ponti: «Militare, abbiamo bisogno di te. Sarai ben ricompensato». Dietro l’ortografia stentata si nasconde un impegno serio. Il crimine qui paga. E tanto. Comincia con una mappa il libro di Diego Enrique Osorno Z. La guerra dei narcos, pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera (pagine 378, euro 15,00). Non un vezzo editoriale o stilistico. La carta geografica, con le sue linee scure e nette, strappa il Nordest messicano dall’indeterminatezza in cui l’ha confinato la «legge del silenzio». L’unica inviolabile in questa terra aspra, in cui i profili delle montagne sono affilati e lisci come il cuerno del chivo (così i messicani chiamano l’Ak-47) di chi comanda. «Quelli dell’ultima lettera», dice Osorno appena sceso dall’aereo che lo ha portato dalla “sua” Monterrey, epicentro di quel Nordest desaparecido, fino a Roma, dove sarà protagonista di una serie di eventi alla XII Fiera internazionale della piccola editoria “Più libri più liberi” (fra l’altro, parlerà domani, sabato 7 dicembre, alle ore 16). Ai narcos “padroni” nella fascia atlantica (le autorità li chiamano Los Zetas) non piace vedere riportate le loro gesta nei quotidiani. Lo dimostrano i cinquanta reporter assassinati dal 2006 per aver “scritto troppo”. Diego Enrique Osorno, però, non s’è fatto zittire. Anzi, il libro e l’intero impegno giornalistico di questo messicano della “generazione Zetas” sono una mappa per sottrarre la sua terra all’oblio.Perché ha infranto la legge del silenzio?«Raccontare è un bisogno impellente. Peggio, un dovere morale perché intorno a me ho visto crescere un mostro che in seguito ha assunto il tetro e tuttora mutevole volto di oltre centomila morti. Ogni giornalista ha un impegno nei confronti della realtà che si trova a vivere». Concordo, ma non ha paura?«Certo che ce l’ho. Ho visto il crimine da vicino: il mio miglior amico e collega è stato sequestrato nel 2010 da una banda di narcos a Reynosa, nel Tamaulipas. L’hanno catturato per strada, l’hanno portato in un luogo isolato e l’hanno riempito di botte. Poi, per un caso fortunato quanto inusuale, l’hanno lasciato andare, vivo. In quel momento, stavo scrivendo il libro su Los Zetas. Ho pensato: o mollo tutto e guardo dall’altra parte, oppure mi ci butto a capofitto. Ho scelto la seconda. E non me ne sono pentito». Oltre che contro il silenzio, lei si ribella anche all’eccesso di rumore. Ovvero quello stile informativo che conta i morti invece di cercare di raccontarne le storie. Così ha optato per il giornalismo narrativo, diventandone una delle voci più originali in America Latina. E ha solo trentatré anni…«Sono troppo pochi? Beh scusate… Umorismo messicano a parte, ho scritto per la prima volta su Los Zetas a vent’anni. Nel 2010 sono arrivato a quota settemila articoli. Ma non ero soddisfatto. Limitarsi a dare la notizia nuda e cruda, in un breve articolo, o anche in settemila, alimenta nel lettore la sensazione che il mondo giri troppo in fretta e che non ci sia il tempo materiale per fermarsi a fare ciò che una storia ben raccontata ti obbliga a fare: pensare. Sa quale è stata la rivelazione? Roberto Bolaño».Che cosa ha imparato dall’autore di “2666”?«Proprio in 2666 Bolaño offre la migliore descrizione nel potere del narcotraffico senza mai nominarlo direttamente. Inoltre, questo scrittore mi ha insegnato che non si possono dividere i messicani in buoni e cattivi. All’interno della nostra società, e non solo, il male si è insinuato in quelle istituzioni che dovrebbero combatterlo: polizia, magistratura, forze dell’ordine. E, viceversa, anche nei narcos si possono trovare tracce di umanità».Perfino nei Los Zetas?«Attenzione, io non voglio de-responsabilizzare i criminali. Penso solo che il narcotraffico sia un effetto collaterale della corruzione imperante. Una corruzione antica, istituzionalizzata. Dobbiamo agire là se vogliamo risolvere il problema. Los Zetas, nati nel 2000, sono il più nuovo cartello della droga. Hanno scompaginato i giochi, rompendo l’equilibrio di potere tra i gruppi storici e tra questi e le autorità. Los Zetas hanno, innovato, pure nello stile: sono i “Rambo del narcotraffico”, moderne macchine da guerra, feroci, spietate. Anche loro, però, sono un “prodotto” di decenni in cui abbiamo permesso al crimine di “infettare” il Paese, voltandoci dall’altra parte». Eppure lei è ottimista sul futuro del Messico.«Devo esserlo per forza. Altrimenti non scriverei. Devo poter credere che il mio lavoro abbia un senso. Che il male non sia invincibile. Se guardo dentro di me vedo più speranza che paura. In che cosa? Nei barlumi d’umanità che si annidano nel fondo di ogni donna o uomo. In Messico e ovunque».
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