giovedì 1 settembre 2022
Il grande scrittore olandese racconta i suoi viaggi allo stesso tempo letterari e spirituali che entrano in profondità nelle terre del Sol Levante
Il monte Fuji a Šizuoka

Il monte Fuji a Šizuoka - Tomáš Malík/Unsplash

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Non era del tutto sincero Cees Nooteboom in Tumbas (2007), quando, davanti al sepolcro di Murasaki Shikibu, la prima narratrice nipponica della storia, affermava: «Il mio Giappone è un Giappone di libri». Come leggiamo in questo suo libro del 2013 tradotto ora come di consueto per i tipi di Iperborea (pagine 220, euro 19,50), ovvero Saigoku. Il pellegrinaggio giapponese dei 33 templi, in Estremo Oriente lo scrittore c’era già stato diverse volte, in anni differenti: 1998, 2000, 2004, 2005 e 2010. Tanto è vero che qui sente il bisogno di correggersi, come accade nella stazione numero 8 (chiamiamola così, perché effettivamente di tappa si tratta, lungo un percorso non prestabilito, ma necessario), 'all’Hase-dera, il tempio di Hase': «Naturalmente il lettore che sono è al tempo stesso in un tempio e in un libro».

Il libro cui Nooteboom si riferisce è La storia di Genji, scritto appunto nell’anno mille dalla citata Murasaki Shikibu: 1.400 pagine divise in 54 capitoli per un palcoscenico su cui s’accalcano più di 430 personaggi. Scrive lo scrittore: «Mille anni sono un arco di tempo lunghissimo, ma anche se quel mondo ci è ormai totalmente estraneo, non hai mai la sensazione, leggendo, che ti sfugga qualcosa di fondamentale, per cui il libro risulta sorprendentemente moderno. Parla di persone e dei loro sentimenti, delle loro relazioni». E poi: «Genji è un continente a cui nel corso degli anni mi sono avvicinato in modi diversi». Infine: «Quando racconto agli amici giapponesi che ho letto il Genji sorridono increduli, e non c’è da stupirsi visto che da tempo nemmeno loro sono più in grado di capire la lingua di Murasaki e devono dipendere da connazionali che hanno tradotto o rielaborato il libro dal giapponese di corte dell’XI secolo. Uno di questi è Jun’ichiro Tanizaki».

Ecco: onore al grande Jun’ichiro Tanizaki, che è proprio lo scrittore (e il filosofo) della 'penombra'. Il quale meglio di tutti ci ha fatto comprendere quella dimensione entro cui, nella più assoluta reticenza, tutto accade in Giappone - ancora arcaico, nonostante la sua frenetica modernità - e anche nel Genji (che del Giappone, come speciale sintassi del vivere, è appunto la matrice).

Verrebbe da chiedersi che cosa voglia davvero intendere Nooteboom con quell’affermazione di sentirsi sempre, durante il pellegrinaggio, dentro un tempio e, insieme, in un libro. Lo scrittore è bravissimo nel farci partecipare, sotto la sua paziente guida, all’effettiva visita di un tempio. Puntuale come il più erudito dei maestri, immancabilmente documentatissimo, mantiene però sempre dello scrittore quell’imprescindibile originalità di sguardo: «Qui sono in India, in Giappone e a Lourdes. Lourdes perché questo è un luogo sacro per chi soffre di malattie agli occhi (…). India perché c’è un muro intero che sembra venire da un tempio indiano, con figure femminili seminude che in Giappone non si è soliti vedere».

Più difficile, invece, capire senza possibilità d’equivoco cosa voglia intendere Nooteboom quando dice di trovarsi, oltre che fisicamente nel tempio, anche dentro a un libro, il Genji appunto. Si tratta d’un omaggio a quell’idea cruciale e ipernovecentesca di Borges che ravvisava nella letteratura, in quanto portatrice di senso, ciò che non era più possibile riconoscere alla teologia? In un certo senso sì, ma senza assecondare nessuna religione della letteratura.

In un modo molto teatrale (nel senso della vita che si fa teatro e, teatralizzandosi, diventa chiara a sé stessa) letteratura e realtà acquistano significato l’una dall’altra, in un movimento reciproco. Ecco: Nooteboom non sarebbe diventato quel pellegrino lì se non fosse prima stato il lettore di quel venturoso romanzo dell’anno Mille. Viceversa quel lettore ora può capire tante nuove cose proprio perché è stato un pellegrino: «Tutto ciò che vedo intorno a me diventa lo scenario della storia: i grandi ambienti misteriosi, i pavimenti lucidi, gli alti pali sui quali l’edificio riposa contro il pendio, la vista verso i giardini dove l’attualità non gioca alcun ruolo, la statua impressionante di Kannon a undici teste, alta otto metri, in fondo all’hond?».

Seguire il percorso che unisce i 33 templi può anche condurre a una filosofia della conoscenza sorta per difendersi dal simbolismo a cui le molteplici trasformazioni di Kannon, «la dea buddhista della misericordia», ti costringe: «Dopo aver visitato per la prima volta tutti e trentatré i templi, ho deciso che camminare e guardare doveva essere sufficiente, non ho più voluto sapere cosa rappresentava ogni singola statua, o cosa significava ogni mudra».

In Saigoku Nooteboom ci racconta il secolare viaggio attraverso cui la dottrina buddhista parte dall’India, passa per la Cina e arriva in Giappone: una storia di malintesi, «in cui una favola si insinua nell’altra senza bisogno di uno scrittore». Introdotta in Europa viene presto vista «come una corruzione dell’alto Bramanesimo, come una religione del nulla, della morte». Questo libro, scritto da un occidentale senza pregiudizi, ci aiuta a capire tutto meglio.

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