sabato 8 agosto 2009
Lo scrittore pugliese: «La nostra immagine è spesso chiusa dentro facili stereotipi. Non si può descriverla come un inferno. Oltre alla disoccupazione e al disagio sociale ci sono storie e culture che vengono taciute»
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Incontro Raffaele Nigro nella sua casa di Bari. Ci accomodiamo in soggiorno. Le pareti sono tappezzate di quadri con una densità che mi ricorda certe quadrerie seicentesche. «Sono di amici soprattutto, – mi confida lo scrittore, – ma anche opere acquistate sull’onda di una forte emozione, da me e da mia moglie» . La sua voce è intensa, pacata: «Non sono un critico, i quadri mi piace raccontarli…» . «Lo hai fatto in un tuo libro fortunato, Novecento a colori» . «Ma resto un narratore – subito aggiunge – un narratore del Sud…» . Il Sud, appunto. I tuoi romanzi si concentrano sulla civiltà meridionale. Ne «I fuochi del Basento» , il tuo primo successo, sembra farsi avanti il sogno di una repubblica contadina. Ma si può ancora parlare oggi di scrittura meridionalista? «È una questione di contenuti. Se direttamente o indirettamente ci si occupa di problemi sociali del Mezzogiorno, la scrittura diventa implicitamente meridionalista. Ma è anche una questione di scelte, di scelte interiori. Sono uomo del Sud e racconto ciò che più amo e conosco. Più ampiamente credo in una scrittura di carattere antropologico e l’antropologia chiede che un uomo entri nelle viscere, non solo dell’individuo, ma anche del corpo sociale» . E tuttavia molti scrittori meridionali rifiutano l’etichetta di scrittori del Sud… «Esistono molti modi di raccontare il Sud. Ci sono scrittori che lo attraversano con ironia, come Lupo, Cappelli, altri che si inseriscono in un filone giallistico, come Carofiglio e Camilleri. Altri ancora, e sono i più, interpretano il dopo Levi come l’ingresso nell’inferno, ed ecco le narrazioni della camorra e del degrado. Questi tre volti coesistono e raffigurano spezzoni della realtà. Ma si può anche raccontare un Mezzogiorno in cui non c’è solo inferno. C’è sicuramente il purgatorio della disoccupazione, ma ci sono anche paradisi antichi e nuovi. Abbiamo ancora una natura meravigliosa in molti luoghi e un sistema di vita piacevole. Quando nel ’ 63 e ’ 64 Brandi scese nell’Italia meridionale e cominciò a raccontare per il Corriere della Sera queste terre, e scrisse degli straordinari esempi di architettura e dell’asino martinese e della mirabile cucina, sembrò a tutti di scoprire un mondo sconosciuto. Oggi non si racconta il Sud nella sua integrità, si preferisce raccontarlo per stereotipi e metafore». Recentemente ti sei fatto promotore di un progetto di notevole interesse, la creazione di un parlamento degli scrittori del Mediterraneo. Perché questa iniziativa? «Perché quando si parla di Sud generalmente non si tiene conto della sua identità sul piano storico, religioso, antropologico: una identità complessa, che si intreccia con quella più ampia e diversificata del Mediterraneo. La scrittura degli autori meridionali, ad esempio, risente sia del realismo magico della letteratura magrebina che del carattere epico di quella balcanica. Un consorzio ' politico' di scrittori mediterranei potrebbe offrire un contributo determinante alla conoscenza delle culture dei singoli Paesi che affacciano sul mare e indirettamente dare un apporto a problemi sociali di grande rilevanza come quello degli immigrati» . La tua scrittura. Vieni sovente definito uno scrittore sperimentale. Condividi questa definizione? «Fin da ragazzo ho provato a sperimentare in prosa ciò che era più facile in poesia; ho utilizzato, ad esempio, certe forme di scrittura della Beat Generation di Gregory Corso o di Allen Ginsberg; la proposizione polifonica di Petrarca; ho fatto ricorso alla struttura del proverbio che è sincopata e non è fatta di aggettivi, ma di sostantivi perché l’aggettivo serve per pennellare, mentre il sostantivo è proprio degli scultori e il mondo meridionale che io racconto lo vedo roccioso, e per raffigurarlo ho bisogno di pieni e di vuoti. Il punto di partenza è senz’altro la cultura orale, di cui sono stato testimone da bambino; ho poi attraversato la cultura alfabetizzata con la scolarizzazione di massa e sono approdato alla scrittura per immagini, quella della televisione, fino a quella telematica di oggi. È dalla commistione di queste forme espressive che nasce la mia maniera di raccontare » . «Santa Maria delle Battaglie», il tuo ultimo libro, mi sembra una sintesi emblematica della tua intensissima scrittura, sottilmente drammatica, ma anche aperta al sogno; e dunque reale e visionaria, in bilico tra passato e presente… «Magdalena, la madre di Federica, la ragazza ridotta in come a seguito di un incidente, è una giornalista. Nella cameretta di ospedale in cui è ricoverata la figlia tiene costantemente acceso il televisore, perché ritiene necessario che la ragazza senta i fatti che accadono nel presente. Ma quei fatti, nella loro natura antropologica, sono quelli di sempre. Nel mistero dell’inconscio la ragazza torna indietro nel tempo, incontra storie antiche, dei secoli trascorsi. Ricerca la sua identità nella memoria. C’è bisogno del passato per non sentirsi isolati. La solitudine del nostro tempo è quella dei figli unici. Perché le famiglie si sono sventrate, le grandi comunità familiari sono sparite. Abbiamo oggi una nuova tipologia di uomo: un uomo che si sente sganciato da tutto e da tutti, geograficamente e storicamente. C’è necessità di rifondare un nuovo statuto di valori: partiamo dunque dalla memoria». ( 1, continua)
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