martedì 19 aprile 2011
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«La responsabilità pubblica di chi scrive ha conosciuto un’evoluzione storica tutt’altro che lineare. Durante la Seconda guerra mondiale, ad esempio, la convinzione profonda verso il potere delle parole ha spinto persino a condannare a morte certi scrittori». A ricordarlo è la sociologa e storica francese Gisèle Sapiro, che ha appena pubblicato Oltralpe un ponderoso saggio dedicato proprio a La responsabilità dello scrittore (Seuil). La responsabilità letteraria è associata all’impegno civile così come, in negativo, ai rischi penali della scrittura. Questi due versanti convivono da sempre?«Non esattamente allo stesso grado. A partire dal Medioevo, il versante repressivo ha a lungo prevalso. Ma nel tempo, gli scrittori hanno cercato di ribaltare la prospettiva, appropriandosi dell’idea di responsabilità e trasformandola persino, in certi casi, in uno strumento contro lo Stato e il potere costituito. È così emersa un’etica della responsabilità distinta dalla responsabilità penale. Si tratta di una responsabilità morale che sancisce il ruolo dello scrittore come voce critica della società, orientata verso la ricerca della verità in un modo il più possibile autonomo dal potere. I philosophes del Settecento hanno rappresentato una tappa fondamentale in questo processo».Ad accomunare i due versanti è l’assunto del potere della parola scritta…«Questa convinzione è molto antica ed era già associata alla mimesis di Platone: l’autore imita la realtà, ma anche chi riceve il testo rischia d’imitarlo. Una concezione diversa è stata difesa da Aristotele, attraverso la catarsi. Con lo sviluppo della stampa in Europa, la tesi dell’identificazione verrà fortemente ripresa dal potere, soprattutto nel caso dei nuovi lettori delle classi non privilegiate. Divenendo un atto individuale e più difficile da controllare, la lettura è percepita come un pericolo. Si teme ad esempio l’influenza sui costumi e la condotta morale. Nell’Ottocento, in Francia, a mostrarlo sarà il processo contro Madame Bovary di Gustave Flaubert, un’opera considerata come una minaccia per l’integrità della famiglia. Un altro capo d’accusa molto ottocentesco è quello d’incitazione alla rivolta, nella scia dell’idea che sono stati proprio i libri ad innescare la Rivoluzione».Il titolo del celebre intervento di Émile Zola sul caso Dreyfus, «J’accuse» (1898), è oggi un nome comune. Perché quell’intervento è divenuto un simbolo?«Durante la Restaurazione, gli scrittori liberali avevano già reclamato il diritto di criticare le istituzioni e di difendere la verità. L’etica della verità sarà molto forte per personalità come Zola e Flaubert. Zola, influenzato dal modello scientifico, non riuscirà ad imporre del tutto l’idea della scrittura come sperimentazione al servizio della conoscenza del reale. In questo quadro, si orienterà sul fronte giudiziario verso il caso Dreyfus, il che gli varrà attacchi di ogni tipo, anche con il pretesto delle sue origini italiane. Quest’intervento avrà fin da subito un’enorme visibilità e accrescerà simbolicamente la portata dello spazio d’azione della scrittura, offrendo un modello ancor oggi valido per gli intellettuali militanti». L’intellettuale militante è una figura eminentemente europea?«L’origine è certamente europea. Ma esistono grandi differenze secondo i Paesi. In Inghilterra, sono emersi soprattutto i cosiddetti "public moralists", intellettuali pubblici in fondo molto legati alla classe dirigente uscita da "Oxbridge". In Germania, l’ambiente accademico e quello letterario sono rimasti a lungo estremamente distinti. Lo scrittore non ha avuto grande influenza, almeno fino a Günter Grass. In Italia, i campi letterario, accademico e politico sono invece tradizionalmente più vicini. L’atteggiamento verso il fascismo ha in seguito rappresentato uno spartiacque. In Francia, il cattolico François Mauriac fu l’unico membro dell’Académie Française a entrare nella Resistenza, scrivendo fra l’altro all’epoca un testo magnifico come Il quaderno nero. Sarà poi soprattutto Jean-Paul Sartre a teorizzare un nuovo modello d’impegno legato a una filosofia della libertà contro l’oppressione, con un successo che valicherà le frontiere. Oggi, tutte queste nozioni sono spesso di nuovo fortemente contestate da chi rivendica un ritorno alla letteratura come arte autonoma».Alla luce delle ideologie e catastrofi del secolo scorso, impegno fa rima ormai con testimonianza?«La Prima guerra mondiale contribuì molto alla nascita della testimonianza come genere letterario poi ampiamente dibattuto negli anni Venti e Trenta. Esiste un legame con l’ascesa del giornalismo, ma gli scrittori scelgono questo registro anche per distinguersi nettamente rispetto alle competenze crescenti delle scienze sociali. La sociologia ha invaso l’ambito della morale, la psicologia quello dei sentimenti, la storia quello della nazione. L’esperienza della Seconda guerra mondiale rafforzerà ancor più il bisogno di testimoniare, come ha mostrato il caso di Primo Levi, anche se la testimonianza resta ancor oggi solo uno dei modi alternativi per uno scrittore di affrontare la verità, accanto alla narrativa d’immaginazione, all’allegoria o ancora al recupero letterario della memoria storica».
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