sabato 16 maggio 2009
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Ha iniziato a viaggiare a diciott’anni, e oggi, sessant’anni dopo, non ha ancora finito. Anche se da qualche tempo si è stabilito in Malesia, Jørn Riel non si ferma, e continua con le sue incursioni in Europa, in Asia, in Oceania. Come inviato delle Nazioni unite, l’etnologo danese ha approfondito la sua conoscenza del Medio e dell’Estremo oriente, maturando esperienze confluite in decine di scritti dalle ambientazioni più varie dalla Cambogia all’Africa nera, nei quali ha fatto confluire l’esperienza maturata sul campo. Ma la sua memoria torna sempre a quella Groenlandia dove ha vissuto ben sedici anni. «Vivere tanto a lungo a contatto con altri popoli è l’unico modo per conoscerli veramente - spiega ad Avvenire - . Se ci si ferma soltanto qualche settimana, o mese, si intuisce a malapena la superficie di una cultura. Per scalfirla, occorre molto, molto tempo. E - fondamentale ­bisogna impararne la lingua». Quella degli eschimesi Riel l’ha imparata, tanto da diventare il loro principale cantore contemporaneo, il testimone di una civiltà oggi molto vicino alla scomparsa. Alla Fiera del Libro di Torino presenta il suo Prima di domani, appena tradotto da Iperborea (pagine 164, euro 13,50), nel quale narra le vicende di un gruppo di eschimesi di metà Ottocento. Ma esiste ancora quel mondo? «Quasi non più. Qualche gruppo di cacciatori nomadi sopravvive ancora nelle regioni nord-orientali, le più isolate della Groenlandia, ma sono sempre meno. Nel resto dell’isola la popolazione è ormai tutta ibrida, ed è una società molto differente. Soltanto lassù si tramanda il tradizionale stile di vita, in perfetta armonia con la natura. Io credo, dopo tanti anni, di aver compreso davvero la cultura degli eschimesi». Un popolo molto distante da noi, disperso su un territorio immenso - la Groenlandia è la più grande isola del mondo, estesa per oltre due milioni di chilometri quadrati, ma quasi interamente ricoperta di ghiacci e con appena cinquantamila abitanti. La cultura eschimese può parlare anche a noi? «Certo, ci può insegnare molte cose. La tolleranza, prima di tutto, tratto profondamente radicato nella mentalità eschimese. E poi la pace: basti pensare che la loro lingua non ha nemmeno una parola che indichi il concetto di 'guerra'. È anche un popolo ricco di umorismo, capace di uno sguardo ironico sulla realtà: virtù della quale abbiamo certo bisogno». Sembra un idillio… «Assolutamente no. Il contatto con la civiltà europea è stato indispensabile per la loro sopravvivenza. Volerli mantenere incorrotti, fermi alle loro tradizioni, non avrebbe fatto altro che trasformarli in animali in gabbia. Una gabbia nella quale la vita era sì in equilibrio con la natura, ma un equilibrio che prevedeva anche grandi difficoltà di sopravvivenza quotidiana, con la morte per fame sempre sullo sfondo. La fusione, in certa misura, tra gli eschimesi e i coloni europei è stato un processo necessario, secondo me». Da qualche tempo sta prendendo sempre più piede, in Groenlandia, un ideale indipendentista che vorrebbe rescindere anche gli ultimi legami con la Danimarca, della quale oggi l’isola è un territorio autonomo dall’ampio auto-governo. Le sembra una strada percorribile? «Naturalmente i groenlandesi devono poter decidere da sé, in totale libertà. Tuttavia, penso che al momento non siano ancora pienamente maturi per l’indipendenza totale. Soprattutto dal punto di vista economico. Anzi, forse l’indipendenza converrebbe di più alla Danimarca, che spende per la Groenlandia molto di più di quanto non ne ricavi (pressoché nulla). Quanto meno insolito, per una colonia… Certo, l’indipendenza potrebbe aiutare a tutelare la natura groenlandese da eventuali sfruttamenti economici, ma questo già oggi non è un vero rischio, grazie all’estrema attenzione per questo tema che hanno tanto i groenlandesi quanto i danesi. E poi, non dimentichiamo che la condizione degli eschimesi 'danesi' è di gran lunga la migliore». Rispetto a quella degli altri popoli artici? «Rispetto a quella degli stessi eschimesi del Canada. Ho viaggiato a lungo nell’Artico canadese, nei Territori del Nord­ Ovest, e ho trovato condizioni nettamente peggiori. Là gli eschimesi hanno assolutamente le stesse possibilità di sviluppo dei groenlandesi, eppure condividono gran parte del retaggio culturale, e si sentono infatti molto vicini gli uni agli altri». Che cosa è stato a fare la differenza? «L’alcol. Una piaga che ha devastato i popoli indigeni del Nordamerica, ma non quelli della Groenlandia. Un po’ perché arrivato più tardi, un po’ grazie alla profonda influenza dei missionari cristiani».
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