venerdì 6 dicembre 2013
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«Adesso che non gioco più a pallone sa che sport faccio? Il “Gluking”... Non sa cos’è? Si va sulla spiaggia di Riccione, anche se io sono cattolichino, cioè nativo di Cattolica, si tirano i sassi sull’acqua del mare e vince chi sente più volte il suono “gluk”. Vinco sempre, gioco da solo...». È l’ultima di Eraldo Pecci, 58 anni, battitore “libero” del calcio, «ma spostato verso centrocampo», e battutista impareggiabile: «Potrei rinunciare a tutto, ma non a ridere almeno un minuto al giorno di me stesso e far sorridere gli altri». Si ride e ci si commuove anche leggendo il suo primo libro, Il Toro non può perdere (Rizzoli) diventato un piccolo caso editoriale. «Non è una biografia del calciatore che sono stato - ci tiene a precisare - ma un atto d’amore verso un periodo storico e sociale forse irripetibile. Come quel Torino dello scudetto del ’76, una squadra di ragazzi per bene, prima che di campioni».Era il Toro dei gemelli del gol, Paolo Pulici e Ciccio Graziani («Ciccio che ancora oggi dice “l’albitro” e noi ridiamo come asini»), del carismatico mister Gigi Radice che batteva la mano sul cuore dei granata prima che scendessero in campo e che alzava gli occhi in segno di resa, quando il giovane Eraldo lo informava di «non riuscire a dormire nel ritiro a Como, perché sopra c’è Chiasso». Un calcio più allegro e romantico, con tanto di “poeta del gol”, Claudio Sala. E lì in mezzo a recuperare palloni e a mettere un po’d’ordine, il piccolo-grande Pecci, detto “barattolo”, ma per lo scriba massimo del fòlber, Gianni Brera, affettuosamente: «Il mio fratello grasso». E non è certo per fare il verso al gran Giuàn che adesso Pecci si è messo a scrivere. «È una passionaccia che coltivo fin da bambino. La maestra mi diceva che ero bravo a scrivere, peccato che andassi sempre fuori tema...». Giocava già di fantasia il ragazzino cresciuto nel Bologna sotto l’ala protettiva dell’onorevole Giacomino Bulgarelli. Un talento che la vera gavetta l’ha fatta fuori dal campo di calcio, anche perché i suoi, «contadini romagnoli», i primi campi che gli avevano fatto conoscere erano quelli da arare. «All’epoca funzionava che la mamma ti curava e il papà ti guardava storto. Ma in casa si sentiva forte l’affetto, era come il focolare sempre acceso d’inverno». Il piccolo Eraldo a sei anni è già un predestinato, con i piedi ci sa fare parecchio e incanta anche il prete che aveva messo su la squadra dell’oratorio, la Superga ’63. «L’estate del ’65 già lavoravo in un bar di Cattolica. Si faceva un po’ tutti il cameriere, per mettere da parte due lire che servivano per comprare una camicia bianca nuova e magari quella bicicletta che a mio fratello regalarono quando superò l’esame di terza media. A me invece non arrivò mai la bici, perchè l’anno che presi la licenza media avevano rubato quella di mio fratello...». Punizione al limite della sopportabilità per un adolescente di oggi, ma invece allora «si era felici con poco, eravamo tutti più poveri, ma la mia generazione era ricca di ottimismo». Lo dice con quella “s” impastata di piadina che il maestrale trascina su, fino alla Val Marecchia del poeta Tonino Guerra. «L’ho letto anche lui, come no... Io in ritiro portavo sempre una valanga di libri. Non mi è mai piaciuto passare per il “secchione” davanti ai compagni di squadra, ma i classici dai “Promessi Sposi“ a “Lo straniero” di Camus me li sono letti tutti». A Camus ha portato i fiori sulla tomba, a Lourmarin, quando andò a trovare per l’ultima volta il presidente del Toro, Orfeo Pianelli. «Un uomo speciale Pianelli, amava noi calciatori come figli e gli operai della sua azienda erano dei fratelli e fino alla fine li ha difesi dicendo: “Non si possono licenziare, a casa hanno famiglie da sfamare...”». Piuttosto che mettere a rischio il futuro delle famiglie operaie, Pianelli decise di “sacrificare” Graziani e Pecci, venduti alla Fiorentina dei Pontello. Per le pagine viola, come degli esordi e del finale di carriera nel Bologna, come della parentesi epica nel Napoli di Maradona, Pecci ha già pronto un secondo volume. «Ho cominciato, ma sono lento, perché prima scrivo sempre a mano: le cose che ho dentro scivolano meglio dalla memoria alla penna. Il titolo? Ho pensato a una roba tipo “Da grande farò il calciatore”. Ci metterò dentro la Bologna dei miei vent’anni che potrebbe piacere a Pupi Avati, quella al bar delle sorelle Fontana, alla Croce di Casalecchio. Poi la Firenze in cui ho sognato di rivincere lo scudetto, ma la storia del calcio racconta che qui da noi se giochi, come ho fatto io, nei club “outsider” non puoi mai vincere più di una volta. Neppure il Napoli di Diego Armando Maradona c’è riuscito a conquistare due scudetti di fila, eppure aveva una squadra fortissima e il miglior giocatore e capo popolo di sempre». Anche Pecci nel suo libro omaggia il popolo, specie le “basse forze”, quelli di cui non parla mai nessuno. Tipo, la tifosa-amuleto “Bagna Cauda”, che «quando passavamo con il pullman per andare allo stadio se si affacciava al balcone di casa si vinceva di sicuro». E poi, l’autista Barba, il factotum Forconi, la storica segretaria Teresa e i due cappellani del Toro, don Francesco Ferraudo e don Aldo Rabino.

«Mi sembrava normale parlare di quella gente che fa la storia di una società e che magari oggi viene cancellata in un attimo quando arriva un nuovo presidente che si porta dietro la sua corte dei miracoli, fatta per lo più di manager che non sanno niente della squadra e tanto meno di cosa rappresenti per la città e per la sua cultura».

La cultura vera, l’Eraldo se l’è fatta sul campo e poi da commentatore tv al seguito della Nazionale, affiancando al commento Bruno Pizzul: «Un grande, Bruno, e come tutti i grandi si riconoscono dalla disponibilità. Ogni trasferta con Pizzul era come passeggiare con l’uomo Touring, sapeva già tutto del posto. Io l’ho ripagato con qualche battuta delle mie, come quando in diretta disse, “Il portiere turco le prende davvero tutte”. E io: per forza, sono ottomani». Ride di gusto Pecci che da sempre combatte quelli che si prendono troppo sul serio, «specie certa stampa che ha fatto di un gioco semplice e popolare un argomento di Stato. Il male più grande del calcio moderno? Il giocatore ridotto a vip mediatico e quindi costretto ad allontanarsi dalla gente».

Il calcio dell’Eraldo era quello in cui persino juventini e torinisti, alla sera si ritrovavano allo stesso tavolo, quello da gioco. «Tra i “rigatini”, così chiamavamo quelli della Juve, c’erano amici come Zoff, Scirea e Cuccureddu con cui si giocava a scopone a casa di Bruno, il macellaio». Scene che un Balotelli difficilmente vivrà e al quale Pecci ha solo un consiglio da dare: «Magari di leggere e rileggere “Cent’anni di solitudine” di Marquez. Lì dentro c’è un po’ la vita di tanti, magari anche la sua...».

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