sabato 24 dicembre 2016
Non soltanto filologia: la vera rinascita del Quattrocento fu di natura filosofica, come dimostra un’importante antologia introdotta da un saggio di Massimo Cacciari
«I tre filosofi» di Giorgione (1506-1508), conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (Fototeca)

«I tre filosofi» di Giorgione (1506-1508), conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (Fototeca)

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«Ovunque vi sia vita, lì si trova un’anima. Ovunque vi è un’anima, lì si trova una mente». È una frase che starebbe bene su una parete del Mit o di qualche altro laboratorio avanzato in cui si progetta l’intelligenza artificiale. Non è detto che non ci sia, in effetti, anche se la fonte rimane abbastanza insospettabile. Risale al XV secolo, non al XXI, e porta la firma del proverbiale Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), che così, nelle sue Conclusioni ermetiche, riassume uno dei capisaldi dell’«antica dottrina dell’Egiziano Mercurio Trismegisto», il misterioso detentore di una sapienza immemoriale il cui Corpus irrompe nella Firenze medicea attorno al 1460 per l’iniziativa del monaco Leonardo da Pistoia. Si tratta di uno dei tanti eventi memorabili che segnano la vicenda degli Umanisti italiani nella ricostruzione proposta da Raphael Egbi in un volume dei “Millenni” Einaudi destinato, da adesso in poi, a rappresentare un riferimento imprescindibile (pagine CVI + 558, euro 85,00). Si tratta, anzitutto, di un’antologia ragionatissima, che rende disponibili in traduzione italiana testi altrimenti noti esclusivamente agli specialisti, aggiungendo per di più un paio di documenti finora inediti, anch’essi vergati dal ricordato Pico: un capitolo del Commento sopra una canzone de amore composta da Girolamo Benivieni e una lettera a Battista Guarini, della quale viene fornito anche l’originale latino. Ma che l’obiettivo del libro sia più vasto lo si comprende già dalla presenza, inusuale per la collana, di un sottotitolo che insiste sulla polarità fra Pensiero e destino. Da una parte l’attività umana per eccellenza, che indaga la realtà e, indagandola, la trasforma; dall’altra ciò che è immodificabile, quello che nella vita è datum e al quale si può semmai ingegnosamente aderire.

Sono i temi che ritroviamo nell’ampio saggio introduttivo di Massimo Cacciari, Ripensare l’Umanesimo, da leggere anche attraverso il riscontro con l’apparato iconografico allestito dallo stesso Cacciari, in una varietà di immagini che dal duecentesco ritratto di san Francesco al Sacro Speco di Subiaco si spinge fino ai Tre filosofi di Giorgione. In gioco non c’è tanto la ridefinizione dei confini cronologici, che pure è questione niente affatto secondaria e ancora in attesa di ricezione allargata (insieme con la rivalutazione dell’Umanesimo trecentesco, testimoniato dalle “tre corone” di Dante, Petrarca e Boccaccio, Cacciari sottolinea il carattere seminale delle Nozze di Filologia e Mercurio, risalenti addirittura al V secolo). Quella che va affermata una volta per tutte è semmai la natura squisitamente filosofica dell’Umanesimo, in relazione alla quale la stessa attività filologica, di riscoperta e restauro dell’antico, agisce non come mero strumento, ma come dimensione – ancora una volta – del pensiero. Troppo a lungo la vivacità speculativa dell’Umanesimo è stata confusa con le pedanterie accademiche dell’Humanismus ottocentesco, che ancora Thomas Mann aveva voluto prendere di mira nel personaggio di Serenus Zeitblom, voce narrante del Doctor Faustus (1947).

Ma era stato lo stesso Mann, nel dramma giovanile Fiorenza (1907), a far intuire la complessità dell’Umanesimo immaginando che il contrasto fra Lorenzo il Magnifico e Girolamo Savonarola scaturisse dal fatto che entrambi gli uomini fossero innamorati della cortigiana Fiorenza. La rappresentazione risente di una meccanicità allegorica, ma serve a non farci abbassare la guardia: nessuna delle linee di forza che si intrecciano nella Firenze quattrocentesca può essere isolata o trascurata rispetto alle altre. La pax alla quale l’Umanesimo tende, avverte Cacciari, non si stabilisce mediante la vittoria di un sapere sugli altri saperi, ma nella concordia che deriva dalla compenetrazione di culture e tradizioni differenti. La confluenza principale è quella fra civiltà latina e civiltà greca, attuata con la mediazione di un drappello di eruditi fra i quali spicca il pensatore neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, stabilitosi in Italia nel 1438, in occasione del Concilio di Ferrara e Firenze. Una volta di più, quella a cui assistiamo non è semplicemente la riscoperta di una lingua dimenticata. Alla scuola di Pletone gli umanisti sviluppano una filosofia del linguaggio le cui implicazioni risultano evisica denti nella polemica, scaturita dalla traduzione del Parmenide, che contrappose il cardinale Basilio Bessarione al «calunniatore di Platone» Giorgio di Trebisonda. Anche quando sembrano attardarsi a discutere di un singolo lemma (esemplare l’analisi riservata da Angelo Poliziano al termine syndereris, molto diffuso nella tarda Scolastica), gli umanisti stanno forgiando una visione del mondo, in una prospettiva che è nel contempo metafi- e apocalittica.

Fra i meriti maggiori del volume curato da Egbi e introdotto da Cacciari c’è infatti la rivendicazione del versante tragico di una stagione sbrigativamente identificata con la levità del Calendimaggio. Ecco allora che, più della Nascita di Venere di Botticelli, l’icona che riassume lo scenario dell’epoca è l’inquietante Predicazione dell’Anticristo affrescata da Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto. Nell’universo degli umanisti, tra la raziocinante ricerca di esattezza lessicale di Lorenzo Valla e la geniale sintesi filosofico-linguistica di Marsilio Ficino, trova spazio anche un personaggio di quasi incredibile esuberanza romanzesca, quel Giovanni da Correggio che, indossato un copricapo di sedicente fattura ermetica, si autoproclama oracolo e messia. Le sue gesta sono immortalate da Ludovico Lazzarelli nell’entusiastica Epistola Enoch, un resoconto molto dissimile dalla compostezza abitualmente attribuita all’Umanesimo. Ma è anche di questo che stiamo parlando, quando parliamo del tempo di Leon Battista Alberti e di Leonardo da Vinci: del momento in cui, ricapitolato il passato nel pensiero del presente, i sapienti volgono lo sguardo al futuro, provando a immaginare il mondo in cui noi – i loro eredi – ancora ci muoviamo, sospesi fra ammirazione e incertezza. Domandandoci, come già faceva Pico, come sia da intendere il legame tra la vita e l’anima, e tra l’anima e la mente.

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