domenica 11 giugno 2017
La recensione di «Chuck», annunciato dal padre del rock'n roll nel giorno del suo 90° compleanno e completato prima di morire. Al centro la voglia di fare i conti con l'ossessione per la musica
Chuck Berry (1926-2017)

Chuck Berry (1926-2017)

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«A volte resto alzato di notte a scrivere / Non fa bene alla salute, ma continuo / Scrivo ciò che sento, non m’interesso delle rime / Dammi solo un accordo di Do, suonerò a tempo di tre quarti»: canta così Chuck Berry nell’album Chuck (Decca, euro 19,00), annunciato dal grandissimo artista di Saint Louis il giorno del suo novantesimo compleanno nel 2016, e da lui completato pochi giorni prima di spegnersi, il 18 marzo scorso.

Non è un album da poco, Chuck: e non solo perché finale eredità del riconosciuto padre nobile del rock, il primo a raggiungere i giovanissimi cantando i loro problemi, il massimo rivoluzionario del blues che ha traghettato dal mentore Muddy Waters all’r’n’b di oggi, il punto di riferimento di Beatles e Rolling Stones (e non solo) per la creazione di ciò che ancor oggi chiamiamo rock. Chuck è album importantissimo anche perché segna il ritorno del chitarrista a scrittura e studio di incisione a quasi quarant’anni da Rock it del ’79: e Berry vi lavorava da decenni accumulando inediti come imparando a suonare altri strumenti (e persino a usare i pro tools!) per chiarire ai musicisti le sue idee sui nuovi pezzi.

Aveva parlato con emozione, Chuck Berry, di questo cd che ora esce: dedicandolo alla moglie e dicendo «Sto invecchiando, lo so, ma ci ho sudato a lungo e voglio togliermi l’ossessione». In tanti hanno aiutato il papà del rock per Chuck: la sua solidissima Blueberry Hill Band, colleghi/ allievi come Tom Morello o Gary Clark e soprattutto i figli, Ingrid armonica e voce e gli altri due Charles chitarristi della famiglia, uniti al patriarca Charles detto Chuck in un trio toccante. E però Chuck è importante soprattutto perché è un gran bel disco: tale pure per scrittura, moderna e persino sperimentale oltre che matura e varia.

La chitarra di Berry, che sembra parlare e naviga profondità uniche, in fondo la si conosceva, per quanto regali brividi in più di un brano (specie Big boys, Lady B. Goode, She still loves you); e la sua voce pure, peraltro in Chuck anche se indebolita appare ancora energica e calibrata, forse semmai un po’ troppo “ripulita” in studio. A colpire di più sono forza e attualità sonora di musiche e testi, di Chuck Berry in otto casi su dieci: dalla rockballad She still loves you con striature psichedeliche al recitativo della teatrale Dutchman che incede cupamente baldanzosa; dal fiero blues Eyes of man, inno alla purezza dell’uomo contro vanità e falsi idoli, al taglio caraibico di Jamaica moon, succulento e mai banale; e ancora dalla tosta ma elegante Wonderful woman al nuovo, ruvido, inno del rock Big boys. In Chuck c’è inoltre spazio pure per la consapevolezza dell’avvicinarsi della fine: e commuove, il duetto padre/ figlia Darlin’, ballata in cui Chuck dice «Tuo padre invecchia, posa il tuo cuore sulla mia spalla ché il tempo sfuma in fretta», e Ingrid gli sussurra «Ti voglio bene».

Quale ultimo regalo ai milioni di suoi fan, nel suo disco di addio Chuck Berry ha poi voluto vergare pure un seguito del proprio capolavoro Johnny B. Goode del '58: e anche se non sappiamo se Lady B. Goode, autobiografica e scintillante, un domani verrà scelta fra i tesori della terra da spedire nello spazio come accaduto a Johnny B. Goode nel ’77 sul Voyager, oggi che Chuck Berry ha chiuso l’esistenza terrena sappiamo benissimo che lui sì, ora è là nell’infinito con la sua canzone. E probabilmente starà suonandola alle stelle, per far loro conoscere la storia del rock.

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