mercoledì 11 giugno 2025
A 90 anni sprizza ironia: «Alla Scala avrebbe dovuto cantare la “Figlia del reggimento”, con i nove do di petto. Mi toccò sostituirlo, fu un trionfo». «La Callas? Portai il suo barboncino a fare pipì»
Il tenore Ugo Benelli a Genova

Il tenore Ugo Benelli a Genova - L.B.

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«Con Maria Callas non ho mai cantato, ma ho portato il suo barboncino a fare pipì alla Scala». È stato uno dei tenori più importanti al mondo, una delle più celebri voci del repertorio rossiniano e donizettiano, ma Ugo Benelli, 90 anni da poco compiuti, non ha mai perso l’autoironia. «Il più bel regalo per il novantesimo compleanno l’ho ricevuto dall’Enciclopedia Treccani, che mi ha inserito alla voce “Benelli Ugo”, quando ho ricevuto la comunicazione ho pensato a una fake news. Mi hanno mandato il testo da controllare e andava tutto bene... a parte una gravissima Z in più», ride sornione. È la Z malandrina di Donizetti scritto con la doppia: «Mi hanno concesso correzioni a patto che non aumentassi le battute, ma io gliene toglievo una!». Circondato dai cimeli di una lunghissima carriera, le pareti tappezzate dalle locandine del Teatro alla Scala che nei gloriosi anni ’60 e ’70 lo ha visto mattatore, vive sul mare di Genova con la moglie Angela, sposata 63 anni fa dopo 5 di fidanzamento.

Benelli con Angela, sua moglie da 63 anni e sua 'critica'

Benelli con Angela, sua moglie da 63 anni e sua "critica" - L.B.


Da Massimo Mila, il primo a notarlo, fino alle riviste internazionali di critica musicale, la sua voce di “tenore di grazia” ha sempre affascinato per il timbro delicato ma insieme robusto, raffinato nelle agilità e cristallino negli acuti, eppure il suo è un talento emerso per caso, quasi controcorrente «dato che da bambino quando cantavo a pieni polmoni strimpellando al pianoforte il brindisi della Traviata o l’aria del Fra’ Diavolo, “Quell’uom dal fiero aspetto”, mio papà correva a chiudere le finestre dicendo che disturbavo i vicini». A Genova i genitori avevano un laboratorio di cappelli per signora, ma la moda stava passando e arrivò il giorno che chiusero bottega «e io ragazzino sapevo fare solo cappelli».

Come le venne l’idea di diventare tenore?
È successo che mi sono ritrovato una voce, un pianoforte in casa e una giovane vicina che mi sentiva cantare (la finestra aperta era stata utile!) e appena compii 18 anni volle a tutti i costi fissarmi un’audizione con il suo maestro Piero Magenta, che insegnava a vari cantanti poi diventati famosi: anziché in spiaggia andavo a lezione, anche due volte al giorno, e così ho bruciato i tempi. Intanto mi sono anche diplomato in ragioneria altrimenti mamma e papà non mi permettevano di studiare canto... io mi raccomandavo al professore, «stia tranquillo, non farò mai il ragioniere» e lui «ma me lo devi giurare, Benelli!». Fu quella vicina a segnare il mio destino, ma prima di lei il parroco di Santa Maria Maddalena: dopo l’oratorio portava noi bambini in chiesa per la benedizione e lì io cantavo a piena voce “Lauda Jerusalem Dominum...”, mi piaceva così tanto che ci davo dentro. La gente si voltava a guardarmi e io non capivo che era ammirazione, facevo facce brutte, ero un bambinaccio. Poi con i boy-scout mettemmo su un’operina nel chiostro della parrocchia, fu un successo e raccogliemmo un discreto incasso, grazie al quale partimmo per il campeggio affittando un mulo per non portarci lo zaino in spalla. Insomma, il mio primo cachet è stato l’incrocio tra un cavallo e un somaro.

Come fu ammesso alla scuola di canto della Scala?
Il maestro Magenta mi incoraggiò a provare il concorso per entrare, era il 1956 e avevo 21 anni. Su oltre duecento aspiranti vincemmo in tre, le due future dive Fiorenza Cossotto e Biancamaria Casoni e io. Per sapere chi fossero i prescelti, ci presentammo tutti in massa sul retro del teatro in via Filodrammatici e ricordo che l’usciere Beretta scacciava i maschi, “potete andarvene, tanto è passato solo un tenore”. Non stavo nella pelle, volevo il nome... la notizia della vita la seppi dall’usciere! Beretta alla Scala aveva un ruolo importante: il giorno della recita veniva già il mattino in camerino dai cantanti con il cachet per la sera, ma il vero scopo era accertarsi dello stato di salute degli artisti, se vedeva che qualcuno stava così così avvertiva subito i dirigenti del teatro in modo da essere pronti con un sostituto. Insomma, non si trattava di generosità da parte della Scala, ma era comunque piacevole entrare in palcoscenico con già il contante in tasca, per un genovese sono cose che contano.

Torniamo alla scuola della Scala...
Ho avuto la fortuna che lo stesso anno in cui ho vinto il concorso sono stato anche chiamato al servizio militare. La moglie del grande basso Paolo Montarsolo chiese al sovrintendente Ghiringhelli di firmare una lettera in cui si dichiarava che ero un talento e quindi mi si assegnasse a una caserma milanese, così finii all’aeroporto militare Forlanini, oggi Linate, dove ebbi non solo un tetto gratis, ma la libera uscita da mezzogiorno a mezzanotte. Con la borsa di studio della Scala, 50mila lire al mese, la sera mi permettevo anche il cinema e qualche cena al Biffi Scala, tra i ricchi milanesi, mentre di giorno seguivo le lezioni in teatro: fu lì che incontrai la Callas affannata, doveva andare in scena e al barboncino (ricevuto in dono dal basso Nicola Zaccaria) scappava la pipì. Mi offrii io di risolverle il gravoso problema e lei, dato che ero un militare in divisa, me lo affidò.

Quale fu l’evento che le cambiò la vita e rese la sua ascesa inarrestabile?
Il febbrone di Pavarotti nell’anno 1969. Luciano era tornato dall’America con una strana malattia che andava e veniva, e doveva cantare la Figlia del reggimento di Donizetti, con i terribili nove do di petto consecutivi temuti da tutti i tenori. I primi otto li canti “toccandoli” ma l’ultimo lo devi tenere a lungo: se lo reggi, vien giù il loggione dagli applausi, altrimenti è la rovina. Pavarotti accettò l’impegno a condizione che ci fosse pronto un sostituto in caso di febbre, ma alla Scala erano disperati, dove trovare una voce adatta? Io in quei giorni stavo eseguendo a Roma I quattro rusteghi di Wolf-Ferrari, l’opera più leggera che un tenore leggero possa cantare, cioè agli antipodi dei nove do di petto, ma i dirigenti della Scala trovarono una Figlia del reggimento in versione ridotta per la tivù tedesca che avevo inciso per la Deutsche Grammophone con solo quattro do di petto, e mi convocarono urgentemente per un’audizione. Cantai la mia aria davanti al maestro Sanzogno, ma seguì un tale silenzio che pensai “ahia!” e uscii. Invece anche questa volta la soffiata la ebbi da un usciere, Mugnaini, che mi riferì quanto era avvenuto: il direttore artistico Francesco Siciliani aveva gridato “è lui, lo abbiamo trovato”... Potete immaginare però la reazione del pubblico la sera in cui venne annunciato che al posto di Pavarotti, per il quale i loggionisti erano stati in coda tutta la notte, avrebbe cantato il tenore Ugo Benelli. Di solito in questi casi si fa un applausetto di incoraggiamento, invece ci fu un boato di disapprovazione, ma dopo l’aria dei nove do fu un trionfo! Da allora la protagonista femminile, Mirella Freni, propose sempre il mio nome, così per due anni cantammo l’opera 47 volte in numerosi teatri. Quella serata cambiò senz’altro la mia fama e naturalmente il mio cachet!

Il ventre del teatro è una sorta di cattedrale in continua evoluzione. Com’è vederlo dal retro del palco?
Io ero totalmente affascinato dai palcoscenici emiliani, che avevano ancora le antiche attrezzature in legno delle origini, macchine gigantesche rimaste le stesse dalla costruzione del teatro. La Scala invece era già molto all’avanguardia, per allora. Poi 25 anni fa fu totalmente ristrutturata e divenne ancora più spettacolare, ma a costo di perdite spaventose: io da giovane ero commosso all’idea di cambiarmi nei camerini dove si erano vestiti Caruso e Beniamino Gigli e specchiarmi dove si erano riflessi i volti delle leggende della lirica, la Callas, la Tebaldi, gente che ha fatto la storia... poi hanno distrutto tutto. Avrebbero dovuto conservare almeno quei camerini con religiosità e aprirli al pubblico, per me è un tale dolore che non sono più andato a vedere un’opera alla Scala. Così come hanno distrutto la Piccola Scala, meravigliosa sorella minore in cui andavano in scena capolavori come La finta giardiniera di Mozart, la Rita e Il giovedì grasso di Donizetti, Il matrimonio segreto di Cimarosa... Il sovrintendente Ghiringhelli si arrabbiava perché alla Piccola Scala ci pagava gli stessi cachet che alla Scala, ma con soli 600 posti a sedere, però tra quei 600 c’era tutta l’alta finanza, i grandi industriali si ritrovavano nei palchetti di via Filodrammatici per i loro business. Comunque, avere un delizioso teatro per il Settecento e demolirlo è da pazzi.

Lei ha ricoperto un centinaio di ruoli in opere che abbracciano secoli di storia della lirica, dal barocco al ‘900. Qual è l’opera che le ha dato più soddisfazione?
Al San Carlo di Napoli quando cantai “Una furtiva lagrima” dall’Elisir d’amore di Donizetti ho dovuto concedere il tris, non era mai successo. Poi ricordo con gioia La sonnambula di Bellini con soprani strepitosi come Renata Scotto e Margherita Rinaldi, da poco scomparse, e Luciana Serra, ma è in Cenerentola di Rossini e Don Pasquale di Donizetti che non ho avuto rivali. Però la vuole la verità? A un certo punto ero stufo di fare la parte del cretino innamorato, volevo anch’io essere un cattivo, quindi nel Wozzeck di Alban Berg ho interpretato il capitano, una vera carogna, tra l’altro è un’opera in cui la parte tenorile è molto acuta, da isterico, e io che avevo sempre cantato arie delicate me la sono proprio goduta. Poi finalmente in Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Kurt Weill e Bertolt Brecht sono anche morto in scena e mi portavano in giro per il palco nella cassa, una soddisfazione che a un tenore di grazia non capiterà mai.

L’opera più strana?
Il diavolo in giardino di Franco Mannino al Teatro Massimo di Palermo, con la regia di Luchino Visconti. È la storia della regina Maria Antonietta di Francia, che riceve in dono dal re una collana di diamanti mentre il popolo muore di fame: travestito da regina, il mio personaggio cantava con voce da donna e io, che avevo gli acuti, lo facevo con estrema facilità, fu un successo.

Lei e Luìs Alva eravate come la Callas e la Tebaldi, in eterna competizione...
Diciamo che Alva faceva il Don Giovanni meglio di me, ma io cantavo Così fan tutte meglio di lui, è questione di tessitura, io gli acuti li avevo, erano il mio forte. Purtroppo Alva ci ha appena lasciati... Aveva nove anni più di me e quando venne a Genova con i cadetti della Scala io avevo da poco iniziato lo studio del canto. Andai ad ascoltarlo a teatro e rimasi talmente colpito dalla sua grazia e dal suo fraseggio che decisi di non prendere più lezioni. Fu l’insistenza di mia madre a convincermi che lo studio serve per migliorare e a spingermi a continuare. L'ultima volta che ci siamo visti, dopo anni, è stato sotto il palcoscenico della Scala, Alva attraversava per andare alla scuola, io in direzione opposta per fare le prove di Manon di Massenet nella parte del cattivo Guillot de Morfontaine, e lui mi pizzicò per primo, “sei venuto a fare il comprimario?”, io non fui da meno, “sei venuto alla scuola della Scala a insegnare gli acuti che non hai?”. Scherzi a parte, credo sia l’unico artista che dopo 25 anni è tornato nello stesso teatro a cantare la stessa opera, Il matrimonio segreto, era un grande artista. Ma Cenerentola e Don Pasquale sono miei.

Qual è il “suo” miglior teatro al mondo?
Il teatro perfetto è quando canti bene perché hai modo di sentirti e quindi riesci a fare della tua voce ciò che vuoi, in quel momento diventi uno scultore, la modelli quasi con le dita. E le due acustiche più belle per una voce lirico-leggera come la mia erano il Petruzzelli di Bari e il San Carlo di Napoli, che in tutto il perimetro è un metro più ampio della Scala. È lì che ho trissato la “Furtiva lagrima”. All’estero invece il Metropolitan di New York e l’Opera di San Francisco, e naturalmente il Covent Garden di Londra, dove cantai un Don Pasquale del quale la prestigiosa rivista musicale inglese “Opera” scrisse che nessuno lo aveva mai interpretato così, ad eccezione dei vecchi 78 giri di Tito Schipa.

Lei ha sempre insegnato ai giovani, oggi vede qualche promessa all’orizzonte?
Per molti anni ho tenuto masterclass a cantanti poi diventati celebri, come Daniela Barcellona, che per un mese venne da me ad affinare la sua Italiana in Algeri. Ora ho a lezione un tenore cinese che promette molto bene, si chiama Yinxuan Dan, ha 27 anni e mi ha colpito per gli acuti sonori e puliti come quelli di Pavarotti, acuti che sanno di cristallo. Ai giovani insegno i trucchi del mestiere, ad esempio come prendere gli attacchi, importantissimi perché danno il senso dell’intera aria.

Ci fa un esempio?
Un errore frequente è iniziare “Una furtiva lagrima” in tono lamentoso, mentre Nemorino in quel momento è speranzoso, pensa che se Adina piange vuol dire che lo ama. Qual è allora il trucco? Prima di attaccare il pezzo, pensare a una parola chiave che darà all’interprete l’espressione giusta: se pensa la parola “finalmente”, poi parte gioioso con “una furtiva lagrima”. Poco dopo infatti esplode la felicità, “m’ama, sì m’ama, lo vedo!”. Sono le finezze che fanno grande un cantante.

Lei da chi le imparò?
L’arte del recitativo, che era una mia specialità, la devo tutta al celebre baritono Sesto Bruscantini. Quando feci il primo Barbiere con lui, mi disse un po’ paternalistico “se sei solo falli come vuoi, ma se canti con me li fai come Dio comanda”. Ero un tipo fumantino, ma seppi tacere: aveva ragione lui. Comunque si impara anche da figure molto meno celebri, ricordo un suggeritore della Scala, si chiamava Nardini, talmente bravo che Herbert von Karajan quando dirigeva a Vienna lo chiamava con sé. Uno come lui ti cambia l’esecuzione, era un mago nel dare gli attacchi soprattutto nelle opere moderne come Lulu o Wozzeck di Alban Berg, dove devi attaccare non su melodie ma su rumori, se non hai un ottimo suggeritore sbagli.

Che cosa pensa dei registi di oggi?
Quando travisano l’opera sono inguardabili, ma esistono registi come Davide Livermore, un caro amico che stimo molto anche come tenore: quando cantava era perfetto, aveva sia la voce che la figura giuste, mi offrii di dargli lezioni ma si vede che aveva già capito di essere un genio della regia e ha scelto bene. Anche Damiano Michieletto, a volte molto discutibile, ha messo in scena un Cappello di paglia di Firenze di Nino Rota assolutamente superbo.

A proposito, che cosa accadde con Nino Rota e il suo Cappello di paglia?
Rota voleva incidere il disco e mi mandò lo spartito, ma io ero abituato a Sonnambula, a Don Giovanni, come potevo capire una composizione così moderna? Oggi la considero un capolavoro, ma allora rifiutai con una garbata lettera in cui mi scusavo profondamente e garantivo che per me era troppo difficile. Nino Rota mi rimandò lo spartito, insieme a una registrazione fatta al Petruzzelli di Bari e a una lettera: “Le dico, Benelli, che se lei non canta l’opera io non la incido! Forse la registrazione la può aiutare”. Di fronte alle insistenze di un maestro così importante mi sentii in dovere di provare a studiarla... La prima a Treviso fu un trionfo, Nino Rota corse ad abbracciarmi.

Qualche indiscrezione sui divi che ha conosciuto?
Mario Del Monaco aveva una voce così potente che sembrava cantasse in una stanza, il suo “Improvviso” dall’Andrea Chenier di Umberto Giordano è il si bemolle più sonoro che abbia mai sentito in vita mia. Era anche bellissimo, solo che aveva il complesso della statura e rifiutava di cantare con artisti più alti di lui. Franco Corelli invece era il tenore dell’Arena di Verona, la sua voce non aveva bisogno di amplificazione, era l’eroe, bello in scena e perfetto... Dopo di lui, ma non come lui, solo Placido Domingo. Con Montserrat Caballé ho cantato nell’anfiteatro romano di Arles Elisabetta regina d’Inghilterra di Rossini, voce incredibile ma carattere molto scostante. Al contrario Mirella Freni è stata una sorella, pur così celebre rimase sempre una persona “normale”, che per me è il complimento più grande, pensi che viaggiava con il parmigiano reggiano in valigia, se lo portò anche a Mosca. Poi voglio citare Mario Carlin, un comprimario, figura fondamentale per sostenere i protagonisti, se avesse stonato lui avremmo steccato tutti. Lo ricordo per un Cappello di paglia di Firenze che abbiamo inciso insieme e per la sua bontà. Profugo istriano e figlio di pescatori, con le sue forze arrivò alla Scala, per la sua bravura lo chiamavano spesso: la sera dei Quattro Rusteghi la sua anziana mamma sedeva in palco reale... Anche io ricordo l’emozione dei miei genitori quando a Firenze vennero al mio Matrimonio segreto e per loro presi l’hotel dove stava Zubin Mehta: papà non le chiudeva più le finestre, quando cantavo! Ho regalato loro delle gioie.

I critici l’hanno sempre apprezzata. Chi è il critico che lei ha ascoltato di più?
Senza dubbio mia moglie Angela. Ha uno spiccato senso critico e questo è come la voce, o ce l’hai o non ce l’hai. Dopo ogni recita era lei a dirmi cosa era andato bene e cosa modificare, io per orgoglio la contraddicevo ma poi le sue parole avevano sempre un peso su di me, facevo un segnetto sullo spartito e la volta dopo in quel punto cantavo come mi aveva consigliato. Ha sempre avuto ragione lei. Tuttora di musica si intende più di me: quando faccio lezione, se chiude le porte vuol dire che l’allievo vale poco, altrimenti le porte restano aperte. Angela è la mia roccia, ci piace il battibecco ma siamo indivisibili, a unirci sono due figli, cinque nipoti e due pronipoti, e poi c’è la fede, che io ho ereditato da mia madre, una donna che badava a mio nonno, a mio padre, a noi figli, al negozio di cappelli, eppure recitava tre Rosari al giorno. Noi non trissiamo, ci fermiamo a uno, ma per noi è pane quotidiano.

Benelli nei panni di Fra' Diavolo

Benelli nei panni di Fra' Diavolo - Archivio Benelli



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