mercoledì 7 ottobre 2009
Arriva anche in Italia l’opera in versi del sacerdote e poeta Twardowski, amico di papa Wojtyla, molto popolare in Polonia. Da giovane combattè tra gli insorti di Varsavia durante la seconda guerra mondiale. I suoi primi scritti uscirono in clandestinità. Un intreccio fra poesia e preghiera.
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«Persino il più gran santo è / trasportato come un fuscello dalla formica della fede»: da immagini come questa, in cui splende una sorta di teologia naturale, prende vita la poesia di Jan Twardowski, sacerdote poeta vissuto dal 1915 al 2006 in Polonia, dotato del raro dono di cantare la fede con la più alta semplicità. Nelle sue poesie trionfa un tale amore per la vita, e una tale gioia di esprimerlo, da farne l’esponente di spicco del fenomeno dei sacerdoti-poeti, particolarmente vasto e importante in Polonia. Basti pensare che ne fa parte anche uno dei pontefici più amati e rimpianti dal mondo, Giovanni Paolo II, che fu suo amico, e che definì la poesia «una grande signora» da servire. L’uscita ora in Italia di un libro antologico curato da Andrea Ceccherelli, con traduzioni sue e di Lucia Petti, tanto esile per peso quanto denso per contenuti, Affrettiamoci ad amare (Marietti 1820), va salutata come l’opportunità di scoprire una voce poetica colloquiale e dirompente. Twardowski infatti smentì gli ironici versi di Janusz Pasierb, altro sacerdote poeta polacco, che riprendevano la frase di Wojtyla: «è una grande signora la poesia / e capita di rado in sacrestia». Divenne proprio lui, un sacerdote, il poeta più popolare in Polonia, il più letto, citato e amato.La vita stessa di Twardowski è piena dei segni di una partecipazione coraggiosa e affettuosa agli eventi dell’umanità e del creato, come mostra la nota biografica di Aleksandra Iwanowska, che impreziosisce il volume con la Prefazione di Jaroslaw Mikolajewski. Nato a Varsavia in una famiglia serena, interrompe la sua formazione universitaria solo a causa della guerra, quando già si era affermato da alcuni anni con le sue poesie sorprendenti e toccanti. Le aveva pubblicate su riviste universitarie apprezzate, che avevano contribuito a farne un nome. La linfa religiosa che le nutriva era già evidente, ma doveva essere il sacerdozio a imprimere il sigillo definitivo alla natura della sua ispirazione. La guerra, infatti, è la prova più dura per quest’uomo che ama la vita semplice, la natura e gli animali: Twardowski combatte tra le fila degli insorti di Varsavia, viene ferito, e la sua casa viene bruciata. Dopo questa esperienza tragica e violenta, in cui la morte sconvolge gli equilibri sereni delle presenze familiari e amicali, il poeta si fa sacerdote, nel 1948, e da allora si dichiarerà sempre tale prima che poeta. La prima pubblicazione in volume delle poesie è in un’edizione quasi clandestina, in 40 copie, del 1937, ma la raccolta che ne decreta la consacrazione critica e la popolarità nazionale è Segni di fiducia, del 1970. Come osserva nella postfazione il curatore Andrea Ceccherelli, il motivo di tanto successo va cercato in un cambiamento di ricezione provocato dal Concilio Vaticano II (1962-65), che aveva promosso una religiosità più aperta e affettiva con la quale Twardowski si trovava molto in sintonia. Soprattutto il pubblico gli tributa attestazioni di stima e affetto: il suo verso «Affrettiamoci ad amare le persone se ne vanno così presto», incipit di un’intensa poesia dedicata all’amica poetessa Anna Kamienska che aveva perso il marito, diventa in Polonia una sorta di ritornello popolare, più di quello di una canzone. Sarà la stessa Kamienska a dire che «se San Francesco fosse un poeta contemporaneo, scriverebbe come Jan Twardowski». Questa popolarità straordinaria è impensabile da noi: i casi dei nostri sacerdoti poeti, Clemente Rebora e David Maria Turoldo, lo dimostrano ampiamente. Ma anche nella nazione in cui la poesia religiosa del Novecento ha forse trovato la sua culla più accogliente, il fenomeno Twardowski è eccezionale. Merito probabilmente della sua capacità di fondere poesia e preghiera, con una naturalezza davvero francescana, e con una vibrazione affettiva che arriva direttamente al lettore. Nei suoi testi ricompaiono i temi cari al santo di Assisi, con una meticolosa attenzione nel nominare le specie di animali e piante. La vita del mondo naturale è tanto più apprezzabile quanto più gioiello della creazione divina, e oggetto del suo amore. È giusto perciò che noi esseri umani la ammiriamo, capendo che non dobbiamo essere «sempre a chieder coccole» a Dio, perché non ha solo noi «da amare al mondo». Da qui il fiorire nelle metafore teologiche le presenze animali, di efficacia espressiva sorprendente e familiare, come quella del «coniglietto portafortuna» riferita alla morte. Ma anche altri motivi ricorrenti caratterizzano questa poesia, a tratti autentica teologia in versi, ma esposta con la naturalezza di una preghiera o di un canto popolare. Il poeta propone una sorta di spiegazione al senso di solitudine in cui può lasciare Dio, al mistero del suo silenzio: «Dio si è nascosto perché il mondo si vedesse / se si mostrasse ci sarebbe solo lui». Nella sua teologia affettiva c’è anche spazio per conversare direttamente con Dio, per scrivere lettere alla Madonna, ricordandole che «le fu fedele al tempo di Stalin», e per rappresentarla in modi molto umani, spesso ispirati all’iconografia sacra dei santuari polacchi: come giovinetta, come madre di famiglia con in mano un gomitolo per «rammendare la teologia». E alla propria madre scomparsa è dedicata una commovente sequenza di poesie, «Di morte l’amore non muore», in cui per ritrovarla in cielo bisogna oltrepassare una foresta di santi con volti e gesti terribilmente umani.
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