martedì 10 novembre 2015
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Negli ultimi decenni il ruolo dei mezzi di informazione è risultato cruciale nella trasformazione del Paese. Abbiamo assistito a cambiamenti importanti nel-l’offerta informativa e nelle modalità con le quali i cittadini si informano e formano le loro opinioni e i loro atteggiamenti. Questo aspetto merita attenzione perché determina l’esercizio del senso critico delle persone, la loro capacità di discernimento.  Innanzitutto, l’offerta informativa si è moltiplicata. Poco più di trent’anni fa, in Italia c’erano solo le due reti Rai e pochi residenti vicino ai confini riuscivano a vedere anche la televisione Svizzera o Capodistria. Poi sono arrivate Rai 3, le televisioni locali, Mediaset, Telepiù, Stream, Sky e, con il digitale terrestre, centinaia di reti Tv. Oggi disponiamo di una grandissima offerta televisiva, con una miriade di appuntamenti informativi su reti pubbliche e reti commerciali, gratuite o accessibili in abbonamento. I canali televisivi si sono moltiplicati grazie anche alla digitalizzazione. Siamo informati, sappiamo costantemente e in tempo reale cosa sta succedendo. Già al mattino ci sono i telegiornali, per non parlare delle reti all news che, 24 ore su 24, trasmettono solo notizie.  Lo stesso fenomeno riguarda anche la radio: ve ne sono centinaia e ognuna trasmette, alla fine di ogni ora, un piccolo stacco per dare agli ascoltatori le ultime notizie. E vi sono centinaia di testate giornalistiche, compresa la free press, i giornali gratuiti distribuiti davanti ai supermercati e alle stazioni ferroviarie o del metrò. E poi c’è internet, la rete, che è entrata progressivamente nella nostra vita e ci tiene costantemente informati tramite i portali delle testate e i social network. Tutti i nuovi strumenti di comunicazione convivono con i «vecchi» media, televisione in primis, che in Italia continua a essere il mezzo di informazione prevalente e anche il luogo in cui si 'costruisce' e si alimenta la notorietà di un personaggio. Cambiano, però, le modalità di fruizione. Internet, che è uno straordinario contenitore di notizie che non procede in modo unidirezionale, favorisce l’interazione tra le persone, determinando la circolarità delle informazioni e la loro ritrasmissione da parte degli utenti della rete, non senza rischi di trasformazione e manipolazione. In un simile panorama – un ecosistema digitale, affollato di fonti always on, perlopiù gratuite – cresce l’esigenza di orientarsi. Travolti da un numero di informazioni incredibilmente elevato, assumiamo un atteggiamento nuovo e selettivo: scegliamo e approfondiamo solo ciò che ci interessa e rischiamo di perdere di vista il contesto e la gerarchia delle notizie. O, meglio, costruiamo una gerarchia personale che può prescindere dall’oggettiva importanza degli avvenimenti.  Mentre crescono la televisione e internet, crollano i giornali a pagamento. Oggi si vendono in un giorno circa 3.500.000 copie di quotidiani, un numero inferiore a quello degli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, quando la popolazione era inferiore e la scolarizzazione più bassa. Va aggiunto che il giornale più letto è da sempre la Gazzetta dello sport. Con la perdita di rilevanza della carta stampata come fonte informativa si allenta anche la sua funzione unica e distintiva di strutturazione dell’informazione, che difficilmente può provenire dai mezzi a flusso.  Quali sono gli effetti della nuova dieta mediatica? Rispetto al passato siamo persone molto più informate. Ognuno può sapere che cosa sta succedendo in questo momento, semplicemente collegandosi a un sito internet con il suo cellulare. Questo, una volta, non accadeva: bisognava aspettare il telegiornale della sera. E tuttavia, pur sapendo molto, siamo meno dotati di senso critico, meno consapevoli, meno capaci di discernimento e tutto ciò ha un notevole impatto sulla formazione delle opinioni.  Il primo effetto riguarda la netta prevalenza delle percezioni rispetto alla realtà, delle rappresentazioni rispetto ai numeri, ai fatti, all’evidenza. Il secondo è la prevalenza dell’emotività sulla razionalità. Spesso, infatti, l’informazione televisiva – basata sulla suggestione delle immagini, sulla sintesi, sul ritmo – ci restituisce un contenuto che interpretiamo più in modo emotivo che razionale. Tutto questo – ed è il terzo aspetto – determina una forte volatilità delle opinioni e incide sulla fiducia. La dieta mediatica influenza significativamente la fiducia negli altri, nel futuro, su tutto ciò che ci circonda. E la fiducia non è solo una sorta di precondizione di tutti i processi di cambiamento (si è disponibili a cambiare perché si ha fiducia negli effetti del cambiamento e in chi guida il processo), ma anche un «indicatore» che fa da ponte tra passato e futuro.  Ma perché una persona ha fiducia? Perché si fida di un ospedale o di un medico? Ha fiducia perché ha riscontri oggettivi, perché quell’ospedale e quel medico hanno dato prova di sé e quindi il cittadino apre un credito nei loro confronti. Ma, alla luce delle modalità con cui i cittadini si informano, la fiducia è sempre meno ancorata agli aspetti cognitivi, reali, fattuali e molto più a quelli affettivi e valoriali. Ci si fida delle persone che si ritiene siano accomunate dagli stessi valori. Della fiducia abbiamo immenso bisogno. Essa è alla base anche di ogni economia di mercato, alla base degli scambi e dei commerci. Come ha ricordato l’economista Luigino Bruni, la spersonalizzazione delle relazioni economiche dipende in larga parte da un sistema finanziario lontanissimo e indipendente dai rapporti umani di fiducia, retto sulla ricerca del massimo tornaconto delle grandi banche, delle assicurazioni e delle multinazionali.
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