lunedì 20 maggio 2013
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Il brano qui proposto è un articolo del giovane David Maria Turoldo per la rivista antifascista «L’Uomo» del luglio 1946, come contraltare a un saggio sullo stesso tema di Mario Apollonio, tra i fondatori del periodico e divenuto poi grande storico del teatro. Il testo viene ripubblicato nel volume «Città amata e temuta. Una via urbana alla spiritualità» curato per le Paoline da padre Ermes Ronchi (pp. 122, euro 13), assieme a interventi di Enzo Bianchi, Marco Garzonio, Ernesto Olivero, Luigi Verdi e Rosanna Virgili.
Invece l’immagine della mia città è un’altra o, meglio, altra è la mia immagine della stessa città. Perché io amo la città com’è nella sua mole di pietra, nel suo groviglio di strade, con quella immensa distesa di case senz’ordine e senza disegni: con le sue piazze, con le sue fontane, coi suoi giardini e coi suoi cimiteri. Amo cioè la terra, le pietre, lo spazio in cui l’uomo ha voluto fermarsi, darsi convegno coi suoi simili. Per me la città è quella che è: un punto in cui il complotto della vita diventa inestricabile, una zona ove tutti i sentimenti son vivi, si chiamano, si rincorrono, interferiscono come le radici o le ramificazioni nodose di un antico bosco. La musica che s’intreccia col pianto, il ritmo della danza che aleggia sopra la processione pietosa d’un funerale; e l’ozio fa da cornice alla fatica e la notte è vinta dallo sfolgorio instancabile delle luci. Per me anche le pietre sono creature vive, le colonne, le facciate delle case, i marciapiedi d’asfalto, o di sasso: sono parte di me stesso, sono il mio corpo, ossa e carne di questa mia umanità che si dilata nelle cose. Guai ad astrarre dalla realtà viva di cui siamo composti! Ci si separa dalla vita, si esce fuori dalla presenza divina, dalle arterie per cui Dio passa in noi, e si fa concreto. Non c’è nulla al di là della città, al disopra di essa: anche Dio si è incarnato e abita fra noi, qui allo sbocco di queste strade ove sorge il suo tempo, isolato e in mezzo alla piazza, come un centro a cui confluiscono tutte le longitudini, e da cui si dipartono tutte le irradiazioni spirituali della vita. È un errore pensare che Dio è lontano, che abita in un’altra città: di città ce n’è una sola; egli dimora fra queste mura, come il suo vero cielo è la cella intima del cuore dell’uomo: egli è qui, a portata di mano, toccabile, palpabile, proprio fra queste pietre, in questi tabernacoli umani egli ci ha dato appuntamento: Deliciae meae esse cum filiis hominum. La terra, il cielo, la vita, la morte sono tutte una cosa in lui: noi siamo il suo grande corpo; attorno a questi tabernacoli volteggiano tutti gli spiriti; sono qui gli angeli, i santi, la Chiesa; sono qui anche i demoni, cui è negata la visione vitale e beatificante. E l’uomo quando muore non parte, discende nella terra e continua a navigare nel tempo, mentre lo spirito è ammesso alla visione dell’Essere. La città non è che il volto esteriore di questa realtà. La vita della città è una vita religiosa, è la vita drammatizzata. Essa propriamente è sorta dal bisogno di difendersi da Dio.Sono stati Caino e i suoi figli a costruire le prime città, a innalzare le prime torri contro l’occhio inseguitore di lui. È stato un bisogno di difesa contro il cielo, contro gli elementi, contro la natura ad agglomerarci, a fonderci e a fortificarci; è stato un bisogno di conquista, di dominio, di benessere. Sorta nel peccato, lo Spirito del Male vi ha naturalmente piantato le sue tende, ha steso la sua politica, ha creato i suoi satelliti. Ora egli è riuscito a soggiogare tutta la terra: la violenza è la sua arma; la menzogna il suo successo, l’infedeltà il suo segreto. Anch’egli dunque è qui, fra queste mura, quasi onnipotente: lo serve tutto l’oro della Terra, l’aiutano tutte le nostre debolezze, qui dunque è l’inferno, in questo muoverci senza requie, in questo agitarci senza speranza, sotto queste macerazioni inutili.
È qui, dentro questa periferia che è come un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini, per cui la nostra lotta è contro i reggitori di queste tenebre. E così, da quando Egli ha presto forma visibile, è passato proprio a redimere questa città; è nato ed è morto alla periferia di essa, ma è stato condannato nel centro, nel palazzo del Pretorio, ed è stato flagellato nel cortile del Comune. Prima aveva pianto sopra di lei, sulle alture, e poi era disceso a sudar sangue nell’orto degli Ulivi. Ma nel frattempo aveva trovato un cenacolo, e in esso aveva istituito la sua cena perenne, il suo sposalizio con l’anima di ciascun uomo diventato finalmente non uno tra la folla, ma la folla stessa, non uno degli uomini, ma l’Uomo, e ciascun uomo che mangerebbe le sue carni. Così Egli diventava, morendo, la vita di questa terra, l’anima di questa città, il segreto che tutti cercano nei solchi del sangue. Da allora sorsero i templi accanto alle tane, gli altari accanto alle alcove, i monasteri e i santuari accanto alle taverne. E sulla stessa arena si sono discusse le sorti del tempo e dell’eternità, sulle stesse piazze in una lotta senza fine tra i due principi, tra i due eserciti, in un’unica città. Il regno di Dio è dentro di noi; dentro di noi si scontrano Dio e satana, Cristo e Cesare; l’illusione e la realtà, la verità e l’errore. Noi siamo come il corpo conteso di Laocoonte, come il cuore divorato di Prometeo. Anzi spesso noi siamo come il cavallo di Troia in cui si cela l’insidia d’invisibili arcieri: comunque, arcieri che si contendono uno stesso terreno, una stessa città. Per me in ogni casa, dietro ogni soglia, ogni uscio, come dentro ogni cuore, c’è un duplice mistero, il mistero di una realtà che infinitamente ci trascende, un mistero che non dipende da noi, ma che è in noi stessi, di cui noi siamo il campo di esperimento, la pianura su cui si distende, la selva in cui ramifica, il crocicchio in cui si scontra. Un mistero di bene e di male, di colpa e d’innocenza. Per questo abbiam fatto le case così grandi, perché non riusciamo più a contenerlo, per questo più non ci basta la terra.
La città è il luogo della nostra battaglia, in cui solo diventiamo più consapevoli della nostra impotenza, della nostra passività. È, si può dire, la zona del nostro spirito in cui la libertà, tranello divino, è talmente acuita da diventare necessità. Ed è allora che la città può paragonarsi anche a un immenso mare di volontà in cui nessuna è se stessa, perché tutto in essa è intrecciato, fissato, superiore e schiacciante. Ed è allora che l’uomo assume il volto e la statura di un giullare, di un trastullo di Dio: un pigmeo che si muove in mezzo ad alte mura, entro fosse di case maestose, opere delle sue stesse mani, entro il frastuono e il gorgo delle sue fabbriche e delle sue macchine, dinnanzi alle quali è nulla e tutto, nulla nella sua fragilità e nella sua piccolezza, tutto nel suo pensiero e nella sua volontà realmente mai disarmata, mai vinta. Ed è proprio questo costruire immenso, instancabile e trascendente; questo lottare disperato, questo buttarsi in mezzo al mare della vita senza sapere di arrivare alla sponda; è proprio questo sentirsi disputato dal bene e dal male, questo sentirsi vicino a Dio, ricercato, inseguito da lui; è proprio questo contendere il terreno a satana, qui dove egli aveva piantato la sua roccaforte, il mio piacere di stare in città, di essere la città, di sentirmi una sola cosa con essa. Ed è proprio questa partecipazione a tutti i sentimenti della vita, questo essere io il punto di confluenza di tutte le classi, il cuore che ha in se stesso la capacità di accordare tutti i cuori, di ascoltare tutti, di piangere, e di gioire con tutti, il mio sacerdozio, il titolo più alto per essere il cittadino di tutti.
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