sabato 15 marzo 2014
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Sempre più tolstojano, Er­manno Olmi: profetico, a­scetico, pacifista. Sulla so­glia degli 83 anni è torna­to dietro la macchina da presa per dirigere un nuo­vo film, atteso nelle sale per il prossimo autunno. «Smentisco me stesso, lo so. Prima annuncio l’ad­dio e poi torno a girare – ammette –. Ma questa volta non potevo sottrar­mi ». Il risultato è torneranno i prati (la minuscola è di rigore, su esplicita di­sposizione di Olmi), poetico e a tratti onirico racconto della Prima guerra mondiale. Non un episodio preciso, per quanto la ricerca che ha precedu­to l’elaborazione del film sia stata me­ticolosa fin nel dettaglio. Le divise, per esempio, sono state modellate su quelle dell’epoca, ma non portano mostrine. Impossibile stabilire a qua­le battaglione appartengano i soldati intrappolati in una trincea dove, in u­na notte d’autunno del 1917, a ridos­so della disfatta di Caporetto, arriva un ordine al quale non tutti obbedi­ranno. Autentico è in ogni caso lo scenario dell’altopiano di Asiago. Qui Olmi vi­ve da tempo, qui durante la Grande guerra caddero cinquantamila solda­ti, arrivati da oltre venti nazioni. «Eppure – commenta il regista – fu l’ultima guerra a conservare qual­che elemento di umanità. Subito do­po sono venute le tecnologie e le i­deologie che hanno reso terribile la Seconda guerra mondiale. Adesso vi­viamo nell’era del conflitto globaliz­zato, talmente diffuso da non essere neppure più percepito. Certo, i solda­tini del ’15-’18 non si facevano do­mande, non si chiedevano perché fos­sero lì con il fucile in pugno. Erano la generazione del latifondo, ragazzi consapevoli di essere meno preziosi di una mucca agli occhi del padrone. Poveri com’erano, avevano la capacità di riconoscere i poveri che stavano dall’altra parte, in una trincea che, sul­l’Altopiano, poteva distare anche so­lo pochi passi. Si sentivano i rumori da una parte all’altra, ci si ascoltava, ci si spiava. All’occorrenza, però, ci si con­cedeva una tregua. Come la storia del soldato canterino, no? Una figura che ritorna da un fronte all’altro, questa del napoletano che porta il rancio cantando a squarciagola, ed è così bravo che nessuno gli spara addosso. Tutti si fermano, quando lo sentono. Un desiderio di pace che, per un atti­mo, si realizza»Prodotto da Cinema Undici e Ipotesi Cinema in collaborazione con Rai Ci­nema, torneranno i prati schiera un cast di poche star, tra cui Claudio San­tamaria. Le comparse vengono tutte da Asiago e dintorni. Durante le ri­prese, concluse da qualche settima­na, gli uomini del posto si sono lasciati crescere la barba, hanno tirato fuori i moschetti dei nonni e li hanno porta­ti sul set, che è una trincea ricostrui­ta su due quote diverse. Poco sotto i duemila metri ci sono gli esterni, som­mersi più volte dalle nevicate. Poco sopra i mille metri, invece, ecco il camminamento con le feritoie, il dor­mitorio della truppa, la baracca del capitano. «Avremmo potuto adopera­re un teatro di posa – spiega Elisabet­ta Olmi, figlia e collaboratrice del re­gista – ma gli attori non avrebbero a­vuto la faccia da freddo, non si sareb­bero sfregati le mani, non si sarebbe­ro stretti nel cappotto». In diverse oc- casioni, professionisti e non profes­sionisti si sono ritrovati a piangere. Più di commozione che per stan­chezza. «Sì, ho voluto celebrare la Grande guerra – rivendica Olmi – ma tenen­domi alla larga dalle bandiere, dai mo­numenti, dalle versioni ufficiali. La ve­ra celebrazione, secondo me, consi­ste nel cercare di capire che cosa è suc­cesso, per impedire che si ripeta. Mi pare che le analogie fra la cronaca di oggi e quanto accaduto un secolo fa siano sempre più numerose e inquie­tanti. Avverto un tremore dentro di me, specie quando penso al compor­tamento vergognoso tenuto dall’Ita­lia nel 1914. Il nostro Paese non entra in guerra subito, com’è noto. Prende tempo per mercanteggiare le condi­zioni, per valutare con chi convenga schierarsi. Ci sarebbe il patto di non belligeranza verso l’Austria, ma alla fi­ne è proprio contro l’Austria che gli i­taliani si armano, perché Francia e In­ghilterra rappresentano un vantaggio per l’espansione economica. Ecco, a­desso capite perché, ogni volta che sento nominare l’Europa e i mercati, mi metto in allarme?». La Grande guerra Olmi l’ha conosciu­ta in casa, attraverso i ricordi del pa­dre, che a diciannove anni partì per il Carso come bersagliere («Ce ne par­lava spesso, ma l’esperienza non è un pacco postale del buon senso. Ognu­no deve capire da sé, non c’è scam­po »). Ha anche letto moltissimo: Gad­da, Lussu, il De Roberto della Paura. Senza dimenticare la lezione del suo amico Mario Rigoni Stern, «uno dei pochi scrittori rimasto anzitutto te­stimone », sottolinea. Da ultimo ha de­ciso di attenersi alle memorie di tan­ti soldati senza nome, proprio come senza nome sono i personaggi del film. «Le generalità anagrafiche magari ci sarebbero – aggiunge – ma per gli sto­rici non contano nulla. Bisogna a­scoltare queste voci anonime per ca­pire che cos’è la guerra. Non l’epide­mia di un virus sconosciuto ma, al contrario, il manifestarsi di un morbo conosciutissimo, la cui diffusione ri­sale al momento in cui gli esseri u­mani si sono suddivisi in comunità. I conflitti nascono dalle difficoltà, an­che minime, alle quali ciascuno di noi reagisce malamente, con atti di viltà e omissione. Il volto del nemico ci sor­prende, perché a volte è il nostro stes­so volto. Anche per questo c’è un sen­so di sonnolenza che prevale quando venti contrari addensano nubi burra­scose: un torpore nel quale si cerca ri­fugio per ignorare la vigilia di una ca­tastrofe. È quello che stiamo facendo in questi anni, illudendoci che il falli­mento sia un problema della finanza, una questione contabile. Ma il vero fallimento è sempre morale. E la guer­ra, la più grande stupidità criminale di cui l’uomo possa macchiarsi, ne è la dimostrazione più evidente. La di­sobbedienza, a sua volta, si costituisce come atto eroico, morale, solo quan­do si è disposti a pagare con la morte. È allora, dopo che tutto si è consu­mato, che i prati tornano a fiorire».
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