sabato 18 giugno 2016
Nell’era dello storytelling e dei social network serve più spirito critico per distinguere la notizia dalle “storie” diffuse ad arte C’è bisogno di professionisti “in uscita” per ottenere la fiducia del lettore.
 Tra marketing e realtà, la sfida del giornalismo
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Nell’era dello storytelling diffuso e pervasivo il giornalismo è ancora capace di offrire una rappresentazione della realtà in grado di mantenere con il lettore una relazione autentica e di fiducia? La risposta può essere favorita dalla rilettura di un testo, Il lembo del mantello, la lettera pastorale che il cardinale Carlo Maria Martini consegnò nel 1991 alla diocesi di Milano.  Non c’era ancora il web, non esistevano i social network, l’universo dei mass media era sostanzialmente rappresentato da tv, giornali e radio. Ma è in quel periodo che l’arte e la tecnica del racconto incominciano ad abbattere i confini tradizionali della letteratura e a condurre la “storia” a sperimentare nuove strade, in primis quella del marketing aziendale o politico. Da un contesto in cui è il giornalista a doversi rapportare ai fatti e a scegliere la forma di “racconto” da fornire ai lettori si entra rapidamente in una dimensione nella quale il cronista si trova a sua volta immerso in un mare di rappresentazioni altrui, quasi in un grotta platonica, dove la realtà assume sempre più spesso la forma della “storia” che altri hanno pensato e diffuso ad arte.  È l’emergere dello storytelling come lo si intende oggi, dimensione che richiede  occhiali nuovi per chi è chiamato a decifrare e riportare la realtà. Nel Lembo del mantello, ricordando l’episodio evangelico della donna che animata dal desiderio di guarire si avvicina a Gesù toccandone di nascosto il vestito - atto di fede che la salverà - Martini suggeriva l’importanza di una comunicazione capace di stabilire un rapporto autentico con l’utente dei mass media, una comunicazione «umanizzante» per favorire, attraverso un processo di forte «personalizzazione», l’uscita dalla massa, la maturazione di uno spirito vigile e critico. Oggi la realtà è profondamente cambiata, la massa senza volto che si accalca attorno alla Notizia è diventata essa stessa produttrice di storie e, con l’avvento dei social network, soggetto che rilancia contenuti e amplifica i messaggi. La fine della pubblicità tradizionale, l’avvento del marketing virale e la produzione incessante di nuove storie e nuovi racconti da parte di realtà economiche che si stanno posizionando anche come editori (l’universo nascente del brand journalism) rende tutto più complesso e allo stesso tempo affascinante.  In uno scenario peraltro in cui le carriere dei giornalisti sono diventate fluide, e dove i percorsi professionali condividono sempre più spesso il cammino con esperienze di comunicazione aziendale o politica, ecco che essere cronisti, cartacei o digitali, richiede un supplemento di capacità e tensione etica, attitudine alla trasparenza, al discernimento. L’era dello storytelling totale è la stagione della guerra dei racconti, la narrazione dell’Occidente contro quella dei terroristi, la versione del mercato perfetto contro quella di chi sa riconoscere le “bolle” finanziarie bussando alle porte di chi ha smesso di pagare il mutuo casa, la denuncia di sfruttamento dei lavoratori capace di scalfire l’immagine e la storia di un’azienda-mito.  L’intellettuale francese Christian Salmon in un saggio del 2008 (Storytelling, Fazi editore) arrivava a teorizzare una forma di resistenza civile contro lo strapotere delle storie. Ma non è nemmeno questo il punto. È vero, come scriveva già quindici anni fa Lynn Smith in un editoriale sul Los Angeles Times, che il confronto oggi è con «il potere delle storie di costituire una realtà» perché «lo storytelling è giunto a rivaleggiare con il pensiero logico… Le storie sono divenute così convincenti che alcuni temono diventino sostituti pericolosi dei fatti e degli argomenti razionali». Eppure in fondo resta la capacità di uno sguardo autentico a fare la differenza. La volontà di non confondere i mezzi con i fini, evitando di glorificare lo strumento fino a divenirne schiavi. Se comunicare è anche riuscire a stabilire un rapporto vero e di fiducia con il lettore, o favorirne l’avvicinamento in un processo di forte “personalizzazione”, si potrebbe riprendere ciò che papa Francesco ha più volte detto ai sacerdoti e tradurlo in un manuale di buon giornalismo. Professionisti “in uscita”, sguardo sulle “periferie”, fisiche ed esistenziali, condanna della corruzione, delle chiacchiere e delle maldicenze, capacità di toccare, di guardare negli occhi i poveri e il bisogno, pastori - cioè anche giornalisti - che arrivino a “puzzare di pecora”. L’algoritmo di Google può aiutare a diffondere il messaggio e la storia, ma non ha alcun odore.
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