domenica 19 settembre 2010
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Sempre e solo repubbliche: le autoproclamate non ha mai dubbi. Eppure, a ben guardare, di democratico hanno ben poco: di norma sono feudi di clan monoliticamente serrati intorno al "padre della patria" di turno, spesso difficile da distinguere da un boss della malavita. Lo stesso Kosovo ormai a metà del guado, riconosciuto da mezza comunità internazionale – ma al tempo stesso negato dall’altra metà, con la linea di frattura che, tanto per cambiare, attraversa perfino l’Unione Europea –, è retto da un primo ministro, Hashim Thaçi, dal passato non proprio limpido: a suo carico si citano traffici di droga e di armi, violenze contro gli oppositori, estorsioni. Tutto serve per finanziare la lotta di "liberazione", è immancabilmente la risposta che riecheggia da un capo all’altro del globo, in queste fette di planisfero che per anni, magari per decenni, vivono in un limbo.RITAGLI POSTSOVIETICIIl grosso si trova nell’ex Urss; fu Stalin in persona a tracciare i confini delle varie Repubbliche proprio con l’intento di renderle disomogenee e instabili, e quindi in balia di Mosca. Obiettivo pienamente riuscito. L’ex paradiso dei lavoratori è oggi quello delle repubbliche da operetta, tutte uno sfoggio di bandiere più o meno fantasiose e che nessuno sa mai identificare, di documenti e passaporti grondanti di timbri ma che non consentono di andare da nessuna parte, di gigantografie del presidente che occhieggiano benevole in ogni dove. Le organizzazioni internazionali – Nazioni Unite in testa – sono cronicamente incapaci di risolvere i contenziosi, e il passo dalla farsa alla tragedia è sempre dietro l’angolo. Così, nell’estate di due anni fa, l’Ossezia del Sud è improvvisamente diventata il teatro di una guerra vera, con i carri armati di Putin pronti a sostenere contro la Georgia quella sua "indipendenza" che in realtà non è altro che dipendenza da Mosca. E dire che ad autoproclamarsi per prima era stata, nel 1990, l’Ossezia del Nord inclusa da Stalin entro i confini della Russia. Ma verso l’anelito alla libertà di questi osseti – che non sono né georgiani né russi, e nemmeno slavi –, guarda caso, Mosca non ha mai avvertito i vibranti palpiti di solidarietà che ha riservato a quelli finiti sotto la "tirannide" georgiana. Rientrate già negli anni Novanta le velleità dell’immensa e remota Jacuzia, in Siberia, e del Tatarstan, nelle pianure del Volga, è con la ben più agguerrita Cecenia che la Russia postsovietica ha dovuto fare i conti. Li ha fatti tornare a colpi di mortaio, fino a sfiorare il genocidio di questo tenace popolo di montanari caucasici. Oggi in Cecenia regna la pace del cimitero. Non è mai degenerata, invece, la situazione della vicina Abcasia, territorio marginale della Georgia che si incunea tra la costa del Mar Nero e la Russia – mentre l’Ossezia del Sud, al contrario, arriva fino a pochi chilometri da Tbilisi. Come corollario del conflitto russo-georgiano del 2008 venne anche il riconoscimento ufficiale da parte della Russia – cui hanno fatto seguito Nicaragua, Venezuela e Nauru – dell’Abcasia; poi si è tornati in stallo, sostanzialmente come protettorato di Mosca. Una situazione molto simile a quella della Transnistria, striscia di terra abitata da russi ma affibbiata alla Repubblica socialista sovietica di Moldavia. Con l’acquisizione dell’indipendenza da parte dei moldavi, di ceppo e lingua romeni, gli slavi annunciarono la secessione il 2 settembre 1990. L’area era ancora occupata dall’Armata rossa, e lo è ancora: millecinquecento soldati russi tutelano ancora l’"indipendenza" dello Stato-fantoccio. Che nel frattempo è stato dotato dal suo padre-padrone, Igor’ Smirnov, di un curioso regime comunista nostalgico, con tanto di bandiera con falce e martello. Lo Stato coincide sostanzialmente con l’azienda di famiglia di Smirnov, la Sheriff padrona di supermercati, distributori, una casa editrice, una distilleria, un casinò, una televisione e perfino una squadra di calcio. Ben più drammatici i contorni del tentativo di secessione del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaigian: la regione, a maggioranza armena, proclamò nel 1992 l’intenzione di ricongiungersi alla madrepatria e ne seguì un sanguinoso conflitto con pulizie etniche incrociate. Oggi il Nagorno-Karabakh vivacchia, occupato dall’esercito armeno ma senza uno status internazionale riconosciuto, e sempre con il rischio di un riaccendersi del conflitto. Sembra rientrato, invece, il tentativo secessionista del vicino Nakhchivan, altra regione dell’Azerbaigian – abitata però per lo più da azeri – separata dal resto del territorio nazionale e incastonata tra Armenia e Turchia. L’autoproclamazione qui fu particolarmente precoce (1990), ma l’Azerbaigian riuscì a mantenere il controllo.PICCOLE PATRIE. SEMPRE PIÙ PICCOLEAccanto ai dissesti ereditati da Stalin, l’Europa deve – o meglio dovrebbe, visto che non risolve mai nulla – fare i conti anche con la questione di Cipro Nord. La porzione turcofona dell’isola è stata occupata militarmente dalla Turchia nel 1974 e si è autoproclamata nel 1983, riconosciuta soltanto da Ankara dalla quale tuttora dipende sia militarmente sia economicamente. In teoria dovrebbe ricongiungersi con il grosso dell’isola, la Cipro grecofona membro dell’Ue, ma i negoziati sono da anni in stallo intorno alla questione dei risarcimenti per i beni espropriati dai turchi ai greci nel nord dell’isola. Più a Occidente resta in bilico la situazione della Spagna, con la Catalogna sempre più tentata dalla secessione e i Paesi Baschi eterno ostaggio dell’Eta, mentre ben avviati verso l’indipendenza sono i remoti possedimenti atlantici della Danimarca, le Fær Øer e la Groenlandia, che stanno trattando – ognuno per conto suo, s’intende – una separazione consensuale da Copenaghen. Fermo a un passo dall’indipendenza dal Canada è anche il Québec; tutto dipenderà dal prossimo referendum, non ancora programmato. L’ultima volta, nel 1995, i secessionisti hanno perso per appena lo 0,8%.DOVE SVENTOLA LA BANDIERA NERAGli manca solo il Jolly Roger come vessillo – il drappo nero con il teschio e le tibie incrociate –, ma per il resto potrebbe ben ambire al titolo di Stato dei pirati. È il Puntland, estremità del Corno d’Africa autoproclamatasi indipendente dalla Somalia nel 1998. Tradizionalmente dediti alla pesca e a una magra agricoltura, da qualche anno i due milioni di abitanti hanno scoperto una nuova e ben più redditizia attività: la pirateria contro le navi che transitano al largo delle sue coste, passaggio obbligato verso il canale di Suez. Ma nello sfacelo somalo non è un caso isolato: indipendente de facto dal 1991 è il Somaliland, l’ex Somalia britannica (il resto del Paese era invece colonia italiana) che nel 2007 è pure riuscita a guerreggiare con il Puntland per il possesso di una città dell’entroterra. Ma è tutta l’area al confine tra le due autoproclamate a essere in ebollizione: e alla fine le due regioni contese, il Maakhir e il Northland, hanno pensato bene di non dover essere da meno, e tra il 2007 e il 2008 si sono a loro volta dichiarate indipendenti. La situazione resta fluida, in balia dell’anarchia che tuttora regna a Mogadiscio; al contrario, appare ormai incancrenita quella dell’estremità opposta dell’Africa, nel Sahara Occidentale. L’ex colonia spagnola ha proclamato la sua indipendenza nel 1976, ma subito è stata invasa dal Marocco; è riconosciuta come Stato dall’Unione Africana e da numerosi Paesi americani, ma non dall’Onu. Rientrate e ormai quasi dimenticate le secessioni del Katanga dall’allora Zaire (1960-1963) e del Biafra dalla Nigeria (1967-1970), di drammatica attualità è invece il conflitto secessionista che negli ultimi anni ha travagliato il Sudan; il Sudan Meridionale è autonomo dal 2005, data dell’accordo di Naivasha che ha ufficialmente posto fine alla guerra civile che per decenni ha devastato la regione. Un referendum sullo status definitivo del Sudan Meridionale è in programma per il 2011. Tutto da definire, invece, il destino della Palestina, nonostante l’autoproclamazione del 1988, e del Kurdistan sospeso tra Turchia, Siria, Iraq e Iran e la cui parziale e mai riconosciuta indipendenza risale addirittura al 1946.UN’ISOLA, UNO STATOSono meno di duecentomila. Vivono in un paradiso terrestre, sulla linea dell’Equatore. Hanno pure ricchezze minerarie di pregio, soprattutto rame. Eppure gli abitanti di Bougainville da decenni vivono in uno stato di guerriglia permanente per separarsi da Papua. La repubblica si è autoproclamata nel 1991 e da allora si va avanti tra tregue e riprese delle ostilità. L’ultimo accordo è del 2003: frutto della mediazione australiana, prevede un periodo di ampia autonomia entro i confini di Papua e, chissà quando, una decisione definitiva sull’indipendenza. Da quelle parti – relativamente parlando, viste le enormi distanze dell’Oceania – si agitano verso la secessione anche le superstiti colonie francesi della Nuova Caledonia e della Polinesia, mentre nell’Oceano Indiano appare difficile non riconoscere la bontà delle recriminazioni degli indigeni ilois delle Isole Chagos: la loro terra è stata espropriata nel 1966 dalla Gran Bretagna, che l’ha affittata agli Stati Uniti affinché vi costruissero la base navale di Diego Garcia. E gli ilois? Deportati in massa a Mauritius. Da allora tentano, invano, di tornare in possesso del loro minuscolo eden.
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