martedì 27 agosto 2019
A Città di Castello il Festival delle Nazioni crea un ponte con l’estremo Oriente, tra presente e storia: in programma anche la ricostruzione della “Messa di Pechino”
La European Chinese Chamber Orchestra al concerto inaugurale del 52° Festival delle Nazioni a Città di Castello (Monica Ramaccioni)

La European Chinese Chamber Orchestra al concerto inaugurale del 52° Festival delle Nazioni a Città di Castello (Monica Ramaccioni)

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A sentire i proclami del presidente americano Donald Trump la Cina non è mai stata così lontana. Lontana economicamente, perché la guerra dei dazi racconta un braccio di ferro tra Occidente e Oriente per affermare il proprio potere sul mercato globale, sulla circolazione delle merci e dei prodotti. A Città di Castello, però, tocchi con mano – se ce ne fosse ancora bisogno – che alla cultura non è possibile imporre dazi. Perché le idee viaggiano, si contaminano, si arricchiscono attraverso lo scambio. A differenza di ciò che accade (almeno questo sembrano volere nelle stanze dei bottoni occidentali) con i prodotti. E soprattutto con le persone, ferme dietro muri o confini. Che la musica, regolarmente abbatte.

Lo fa oggi. Lo ha fatto in passato (lezione imprescindibile per il presente) quando viaggiatori e missionari veicolavano prodotti e idee. E musica, dice il cartellone 2019 del Festival delle Nazioni di Città di Castello. Edizione numero cinquantadue, “Omaggio alla Cina”. Scritto in italiano, ma prima di tutto in ideogrammi sui manifesti rosso Cina che ti accolgono alle porte della località umbra. Tra una sagra della pecora e una fiera del bestiame nel cuore dell’Italia si guarda ad Oriente. «Ancorati alle nostre radici europee, ma determinati nel dire che nella sua lunga storia il Vecchio continente non ha avuto pura di uscire dai suoi confini e di fondere la sua cultura con quelle di alti mondi» dice il presidente del Festival delle Nazioni, Giuliano Giubilei, mentre nella chiesa di San Domenico entrano i musicisti della European Chinese Chamber Orchestra, strumentisti nati e cresciuti in Oriente e oggi tra i leggii delle principali orchestre occidentali, dalla Bayerischen Rundfunks ai Munchner Philarmoniker.

Nel concerto inaugurale di domenica (il cartellone prosegue sino al 7 settembre) Rossini e Beethoven trascritti per piccoli ensemble – perché la rassegna di Città di Castello fa da sempre della musica da camera il suo punto forte – ma anche pagine di danza dagli echi (inconfondibilmente) orientali. Per far dialogare persone e culture. Che è il filo roso dei concerti nelle chiese e nei borghi, con artisti italiani e cinesi tra parole e musica. Le parole de Il milione di Marco Polo che David Riondino farà risuonare a Montone venerdì insieme a pagine del Duecento proposte dall’ensemble LaReverdie. «Raccontiamo in musica i primi contati tra Italia e Cina attraverso Marco Polo, ma soprattutto attraverso i missionari gesuiti» spiega il direttore artistico del festival, Aldo Sissillo che ha messo al centro del cartellone la Messa di Pechino: domenica in San Domenico la ricostruzione di una liturgia risalente all’epoca dell’arrivo in Cina dei gesuiti. A proporla, con il suo ensemble XVIII21 Le baroque nomade, Jean-Christophe Frisch. «A metà del Cinquecento i primi missionari appena arrivati a Pechino hanno ritenuto necessario costituire un repertorio musicale. Uno dei primi letterati cinesi convertiti al cattolicesimo, Ma André, fu incaricato di riunire il repertorio della Congregazione dei musicisti della chiesa fondata a Pechino da Matteo Ricci. Questo repertorio, completato e arricchito nel tempo, è stato trasmesso di generazione in generazione almeno fino alla prima metà del Novecento dopo essere arrivato a Parigi già nel Settecento, spedito in un manoscritto dal gesuita francese Jospeh Marie Amiot» spiega il direttore d’orchestra che per le parti dell’ordinario in latino userà la Messa di Charles d’Ambleville.

Musica occidentale e musica orientale ancora una volta si fondono. «Per costituire il repertorio sacro i gesuiti hanno scelto la migliore musica cinese dell’epoca, una musica contemplativa e ricca di molti strumenti dai più dolci come il flauto e il liuto ai più potenti come le percussioni » racconta Frisch convinto della necessità di mettere al centro di una tale proposta «la forza spirituale di queste pagine» che, fa sapere, «dopo la collaborazione del Baroque nomade con il coro della chiesa Beitang di Pechino – a Città di Castello abbiamo le corali Marietta Alboni e Anton Maria Abbatini – sono diventate parte integrante delle celebrazioni liturgiche ». Un ulteriore segno della «storia comune che lega Oriente e Occidente» conclude Frisch. Estremi uniti da La via del belcanto – giovedì solisti cinesi proporranno arie d’opera italiana – ma anche dal jazz di Stefano Bollani, dallo Chopin proposto dalla pianista Sa Chen insieme a una prima assoluta di Qigang Chen, da una Turandot.com commissionata dal Festival delle Nazioni a Raffaele Sargenti e dalla Shenzhen Symphony Orchestra chiuderà la rassegna con Strauus, Cajkovskij e Qianyi Zhang. Per dire che, con la cultura, la Cina non è mai stata così vicina.

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