venerdì 6 maggio 2016
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Nella Nota dell’autoreleggiamo che personaggi, fatti, luoghi narrati di questo secondo romanzo di Stefano Valenti, Rosso nella notte bianca, «sono autentici ma rielaborati […] e non hanno valore documentario». Ne è protagonista Ulisse Bonfanti, condannato a vent’anni di carcere in primo grado, ridotti a otto in secondo per riconosciuta seminfermità mentale, poi rimesso in libertà dalla Cassazione per le gravissime condizioni di salute, appena in tempo per morire, nel 1999, di tumore cerebrale. Che cosa è accaduto? Siamo nel 1994, quando il settantenne Ulisse, dopo circa cinquant’anni, riappare nella malga in Valtellina, dove c’è solo la sua vecchia casera di famiglia bruciata. È tornato «a mettere ordine nelle cose»: la mattina dopo infatti, davanti al bar del paese, trucida a picconate, fracassandogli la testa, Mario Ferrari, per poi consegnarsi ai carabinieri. Non è pentito di nulla: ha fatto quello che doveva. Interrogato in caserma afferma «di aver compiuto un’azione di Guerra, e mostra un documento in cui è detto che nel novembre del 1944 le Brigate Nere gli hanno bruciato la baita e che ora ha diritto a una pensione». Ferrari era il traditore che aveva condotto i repubblichini sulle sue tracce di partigiano: i quali, non trovandolo, avevano sequestrato la sorella Nerina, poi sottoposta a innumerevoli e indicibili violenze, e dato fuoco alla cascina. Processato blandamente nella nuova Italia repubblicana, Ferrari era stato poi amnistiato insieme a tutti gli altri: dentro la storia d’un Paese in cui, osserva incredulo Ulisse senza riuscire a capacitarsene, sono ormai tornati al Governo gli eredi dei vecchi fascisti. Ulisse dice, fiero di sé, d’essere un «cristiano e comunista stalinista». In effetti, pare uno di quei personaggi usciti dai romanzi di Cassola (Bube, per esempio) o del grandissimo Fenoglio citato in epigrafe, ove il Milton di Questione privata, rivolgendosi a un vecchio che lo invita alla mattanza dei nazifascisti, risponde perentorio che non ci sarà nessun perdono: «Li ammazzeremo tutti». Colpisce il lettore, ferocissimo, l’odio politico e di classe che fa divampare, covato da sempre, la furia omicida: mentre il dichiarato cristianesimo, da cui è espunta violentemente ogni pietà («non credo di doverla considerare nelle cose del mondo»), si riduce a un acuto senso dell’invisibile: se è vero che uno dei tratti più originali del libro sta proprio in questa allucinata eppure realissima presenza dei morti. Il romanzo coincide, come tempi, con l’ultima notte passata nella malga prima del delitto, nell’unica stanza abitabile, o nel bosco sotto la neve, dentro una specie di delirio della memoria, accanto al fantasma della madre Giuditta e a quello, dialogante e struggente, della sorella («Ha ancora sedici anni, come quando è morta»), cui lo avvince un legame che è eufemistico dire morboso. Una notte di straziate rievocazioni, in cui si dipana la vita di Ulisse (uomo di partito e operaio tessile come la madre), si disegnano i contorni della vicenda, si definiscono le ragioni dell’omicidio come atto riparatore. Valente si forgia una lingua all’altezza della temperatura incendiata e carica d’odio del romanzo. Talvolta discutibile nelle parti più liricamente stremate («Le nubi, enormi come mondi, colorano di buio i monti»), perfetta, invece, nei suoi esiti di asciutta febbre nei capitoli finali. © RIPRODUZIONE RISERVATA Stefano Valenti ROSSO NELLA NOTTE BIANCA Feltrinelli. Pagine 128. Euro 12,00 Tra le pagine di “Rosso nella notte bianca” riecheggiano le lezioni di Cassola e Fenoglio trasferite in una malga della Valtellina
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