giovedì 5 maggio 2016
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MILANO «Non v’è al mondo peccatore cui non s’apra una via di redenzione». No, non è una frase di papa Francesco. A pronunciarla è Minnie, mentre spiega ai suoi minatori il Salmo 51. La Minnie de La fanciulla del West di Giacomo Puccini, tornata martedì al Teatro alla Scala dopo 21 anni di assenza. Data della prima rappresentazione a New York 10 dicembre 1910. Oltre cento anni prima di Bergoglio. Perché il perdono e la misericordia non sono certo una novità per la Chiesa. Il Papa ce li ricorda quotidianamente, è vero, perché non ci si deve mai stancare di chiedere misericordia e dare il perdono. Ma fa un certo effetto sentire risuonare tutto questo in un’opera lirica. Tanto più se travestita da film western. Perché la partitura di Puccini, che ha già in sé tutti i grandi temi del Novecento, potrebbe essere benissimo una colonna sonora. Lo dice la storia. Puccini scrisse la Fanciulla ispirato dal dramma The girl of the golden West di David Belasco (diventato poi un film) racconto di uomini colpiti dalla febbre dell’oro ma plasmati dalla tenacia e dalla tenerezza di Minnie. Minnie che insegna il perdono. Che lo chiede per Dick Johnson, bandito per necessità, ma mai assassino, che i minatori vorrebbero impiccare, ma che poi lasciano libero perché in loro ha lavorato l’insegnamento della ragazza: «Sappia ognuno di voi chiudere in sé questa suprema verità d’amore». Ma riavvolgiamo per un attimo il nastro. Meglio, la pellicola. Perché la regia di Robert Carsen che si è vista martedì sul palco del Teatro alla Scala propone il classico gioco dell’eroina di celluloide che esce dallo schermo sul modello de La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen. Si apre il sipario e sul palco c’è un grande schermo dove scorrono gli ultimi fotogrammi di My darling Clementine di John Ford. Poi lo schermo scompare e in cinemascope, davanti alle rocce della Monument Valley, compare Minnie. L’eroina esce dallo schermo per poi rientrarci nel secondo atto che Carsen vuole tutto in bianco e nero. E nel finale, smessi i panni della Fanciulla, veste quelli di una diva del cinema. Funziona. Ma nella Fanciulla c’è molto di più che un gioco sul cinema. Ed è qui che la regia seppur esteticamente inappuntabile di Carsen non c’entra l’obiettivo. Cosa che fa invece Riccardo Chailly dal podio restituendo un Puccini lieve, nostalgico e malinconico, che si colora di West senza cedere al folklore. Chailly per la nuova tappa della sua integrale pucciniana ha messo sul leggio la versione originale di Puccini, mai ascoltata in realtà perché Arturo Toscanini per la prima assoluta al Metropolitan di New York mise mano alla partitura apportando tagli. Versione che, però, nemmeno l’altra sera si è ascoltata per intero: il forfait dell’influenzata Eva-Maria Westbroek ha costretto la Scala a mandare in scena all’ultimo minuto Barbara Haveman, già Mimì in altri teatri, ma arrivata poche ore prima a Milano senza avere il tempo di imparare le battute inedite, in particolare il duetto del primo atto tra la Fanciulla e l’ubriaco. Pagina che risuonerà nelle repliche dell’opera, in cartellone sino al 28 maggio. La Haveman, tra inciampi sul testo e qualche asprezza nel registro grave, è una Mimì risoluta così come il musicalissimo Johnson di un ottimo Roberto Aronica. Claudio Sgura è lo sceriffo Race, Carlo Bosi Nick. Uomini che in un West raccontato in cinemascope scoprono il valore del perdono. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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