sabato 13 giugno 2009
A 10 anni dalla morte Trieste celebra lo scrittore che raccontò le lacerazioni della sua terra di frontiera. Un libro di saggi e una mostra
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Erano chiusi in un cassetto, sistemati con ordine, nessuno li aveva mai toccati. La moglie, Laura, li conservava gelosamente nell’appartamento di Trieste. A dieci anni dalla scomparsa del marito ha deciso di scuotere via la polvere e darli alle stampe. Di Fulvio Tomizza era uscito tutto, sono più di trenta i libri pubblicati. Restavano solo quei saggi. Il tassello che mancava per completare e capire fino in fondo l’intensa opera di uno scrittore di confine. Testi autobiografici che Marsilio ora pubblica nel volume Le mie estati letterarie. Lungo le tracce della memoria, dal 17 giugno nelle librerie. Una raccolta costruita da Tomizza stesso tra le tante riflessioni accumulate attorno al suo lavoro. Ma quei passi non arrivarono mai agli editori: nel maggio del ’99, a quattro giorni dalla morte, desiderò tenerli per sé. «Voleva che gli facessero compagnia per passare ancora quell’estate», ricorda la moglie. Non fu così. Tomizza si spense, consumato «da una trasfusione di sangue infetto, dopo un intervento di calcoli al rene», racconta Laura, scacciando le ombre di una morte che qualcuno vedeva in un’epatite da alcol. Appunti 'd’occasione' in cui l’autore de La miglior vita, scende ancora di più nelle lacerazioni della propria terra, l’Istria. L’indagine storica, minuziosa e febbrile, si muove dalla laguna gradese alla roccia bianca del Carso che cala a picco sul golfo di Trieste. E poi giù, fino alle coste dalmate, per addentrarsi nei Balcani martoriati dalla guerra, sotto quell’angolo di frontiera tra Istria e Italia. Il ripiegamento sulle piccole cose domestiche è necessario in questo ultimo sussulto letterario. Nei caffé storici e tra i profumi della cucina di casa. Ma come per Gli sposi di via Rossetti, dietro ai cancelli delle ville, nelle locande e nei tram, irromperà violento l’odio per la minoranza. C’è il Tomizza che legge Pavese e che, ancora studente, collabora a Radio Capodistria. «Nel momento stesso che mi si schiudeva l’orizzonte letterario e venivo iniziato alla cultura di sinistra stavo diventando un uomo dolorosamente diviso negli affetti, nelle fedi e nell’appartenenza etnica». Da lì a poco metterà le basi per il futuro Materada, «la trama - rivela Tomizza -mi si profilava netta in un crescendo sostenuto dall’immaginazione. Il libro mi uscì di getto. Nascosi i fogli nel fondo di una valigia per attraversare il confine, poi il dattiloscritto arrivò sulla scrivania di Vittorini». La paura della lingua: «La cosa che più mi angustiava era l’insicurezza linguistica che investe l’intera area in cui sono nato. Un errore di grammatica o di sintassi, peccato veniale in altre parti d’Italia, qui diventa un orrore che induce a pensare di appoggiarci allo slavo, rifiutato con sdegno e messo in ridicolo tutt’oggi». Vediamo lo scrittore assorto, sulle bozze, che guarda nel profondo di se stesso e confessa di «non riuscire ad avere fede in un’entità superiore che ci sovrasta», ma che «la contemplazione della natura ci preserva dallo scatenamento degli impulsi egoistici e a me offre l’occasione di un rapporto con Dio. Molte volte nel silenzio ho vissuto istanti in cui ho avvertito un brivido di eternità. Scrivo soprattutto per questo». I libri e la vita privata, l’ispirazione e il metodo, le tensioni e la solitudine. Tomizza è di continuo al centro di convegni e dibattiti che rimbalzano tra Trieste, la Croazia e la Slovenia. Per il decennale della scomparsa l’opera del grande erede della letteratura triestina del Novecento sarà passata al setaccio anche in una mostra intitolata Fulvio Tomizza. Destino di frontiera, l’omaggio del capoluogo giuliano che presto gli dedicherà una via. L’allestimento della rassegna a Palazzo Gopcevich, dal 30 luglio al 27 settembre. Manoscritti, foto, giornali con testimonianze critiche e oggetti che popolavano lo studio. Itinerari di una narrativa che ritroviamo nell’inedito, quasi un testamento, dove Tomizza affronta con insistenza la complessità dell’Istria lungo il crinale delle divisioni politiche ed etniche del dopoguerra e dell’esodo. È l’uomo di confine, assalito dal disagio di chi è condannato a scegliere da che parte stare. «Ero considerato un rinnegato, un traditore. Da altri invece un autore irredentista, interessato soltanto a far tornare l’Istria all’Italia». Ma l’altalena dei sentimenti lo spinge oltre quando culla un’idea scomoda, anomala, per l’epoca: nessuna frontiera può scavare solchi incolmabili, perché i valori che accomunano i popoli sono più forti delle divisioni. Un respiro mitteleuropeo che affiora qua e là tra righe finora sconosciute. Pagine che svincolano dallo spazio istriano per farsi oggi universali. «Credo che l’opera di uno scrittore debba essere sempre accompagnata dall’impegno umano e civile di chi la compone». Pensieri e inquietudini che prendevano forma dall’appartamento di Trieste, in via Giulia, che si affaccia proprio su quel giardino dove terminavano sconfitte le passeggiate di Svevo e la coscienza tormentata del suo Zeno.
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