lunedì 12 ottobre 2009
Come l’amico Lewis, il futuro creatore della Terra di Mezzo era appassionato fin dalla giovinezza dalla mitologia norrena: quei «falsi dei» nei quali trovavano la strada per raggiungere la vera fede.
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Nell’estate del 1914 John R.R. Tolkien, all’epoca specializzando in filologia di Oxford, vince lo Skeat Price in inglese e spende tutta l’ingente somma, cinque sterline, per acquistare libri di gallese medioevale e la traduzione di William Morris della Saga dei Volsunghi. Nello scrivere una lettera alla fidanzata Edith, parla della bellezza struggente del Kalevala, il poema epico finnico, e aggiunge che «tra le altre cose sto cercando di ricavare da una di quelle storie – che è bellissima e molto tragica – un racconto sul tipo dei romanzi di Morris con brani di poesia in mezzo…». Quelle storie poi Tolkien le cominciò a scrivere poco tempo dopo, tra le trincee del primo conflitto mondiale, e divennero Il Silmarillion e quindi Il signore degli anelli, che infatti è un romanzo ricco di "brani poesia in mezzo": ma, prima ancora di comporre il suo capolavoro, già nei primi anni Trenta i semi di quelle letture avevano germogliato con la scrittura di due poemi in versi riguardanti la Saga dei Volsunghi: La leggenda di Sigurd e Gudrun, in uscita nelle librerie italiane il 21 ottobre grazie all’editore Bompiani (pagine 236, euro 25,00). Il pubblico italiano fino ad oggi ha conosciuto poco il lato poetico del famoso scrittore inglese, che invece è molto importante nello sviluppo della sua opera letteraria; questo libro inizia quindi a colmare un vuoto e lo fa con tutta la solennità e la serietà del suo contenuto. Un testo drammatico, anzi tragico, questo del La leggenda di Sigurd e Gudrun (come ogni buona saga nordica che si rispetti), che è la versione norrena dell’analogo ciclo germanico di Sigfrido e dei Nibelunghi. La trama dei due poemi è complessa al punto giusto per scoraggiare sia i recensori più esperti sia gli appassionati più zelanti di Tolkien, che certamente divoreranno anche questo nuovo-antico inedito dell’inventore degli Hobbit, pur consapevoli che qui non ci si muove più nelle fantastiche lande della Terra di Mezzo. Qui invece siamo piuttosto nell’Età di Mezzo e su questo è forse il caso di soffermarsi. Tolkien, prima ancora di essere uno degli scrittori più letti e amati al mondo, è stato un insigne filologo e raffinato esperto di tutto ciò che riguarda il mondo dell’Europa medioevale. Che cosa cercava e cosa ha trovato Tolkien in quel mondo? Una parola-chiave per provare a fare luce su questo interrogativo è northerness, cioè "nordicità", e una figura-chiave è quella C.S. Lewis, grande amico di Tolkien e autore anch’egli di celebri saghe fantastiche. I due, entrambi filologi, erano ambedue innamorati della "nordicità", sin dalla loro infanzia. Riflettendo su quel periodo della vita, C.S. Lewis così si esprime nella sua autobiografia: «La nordicità aveva sempre la precedenza […]. Passai da Wagner a tutto quello che mi riuscì di trovare sulla mitologia norvegese, da questi libri ricevetti ancora una volta la trafittura della gioia, se a questo punto avessi trovato qualcuno che mi insegnasse il norvegese antico credo che mi ci sarei buttato a capofitto». Affermazione preziosa, non tanto per il riferimento a Wagner (famosa la battuta dello schizzinoso Tolkien, che fu sempre disturbato dal confronto tra il suo Anello e quello dei Nibelunghi: «Entrambi gli anelli sono rotondi, questa è l’unica rassomiglianza»), quanto per quell’accenno alla gioia che trafigge. Ecco cosa cercavano Tolkien e Lewis, anzi ecco da che cosa erano raggiunti e "feriti" perché «la bellezza ferisce», come ricordava nel 2002 l’allora cardinale Ratzinger. «A volte mi capita quasi di pensare di essere stato spinto verso quei falsi dei per acquistare la capacità di adorare il giorno in cui il vero Dio mi avrebbe richiamato a Sé – continua Lewis nelle sue memorie –. Tutte le gioie evocano sempre qualcosa. Esse non sono mai un possesso, ma sempre un desiderio di passato o di remoto o di ancora "di là da venire"».
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