martedì 12 marzo 2013
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Difficile mettergli il sale sulla coda, fin da giovane, per più ragioni, una su tutte: uomo delle montagne, scendendo in Laguna si portò dietro non solo le doti innate, ma anche quella solida intelligenza dell’imprenditore di se stesso che non sta a far questioni di "mi piace non mi piace", perché il cliente ha sempre ragione e lui era lì per quello: risolvere il problema di lorsignori, ecclesiastici e uomini di corte, dogi e re, che desideravano veder dipinta la loro verità storica, la durata nel tempo. Perché quello che più d’ogn’altra cosa cercava era la fama: «Non stimo se non l’honor mio», la confessione che dà il titolo al bel saggio che Elisabetta Rasy ha scritto per il catalogo della mostra di Tiziano da poco aperta alle Scuderie del Quirinale (edito da Silvana), dice l’orgoglio di un uomo che si è fatto da sé (non era figlio d’arte) e ha saputo imporre nell’Europa del suo tempo un marchio di fabbrica, un brand come dicono oggi gli esperti del marketing.
 
E Tiziano in questo doveva essere un vero stratega se, come ricorda la Rasy, evita di rifiutare una richiesta e cerca di non deludere i committenti. «È un uomo pratico e vuol vivere bene». Vasari dice: «Perspicacia nelle relazioni umane» e intende che Tiziano sapeva intuire i desideri reconditi del committente, ma sarà poi vero che lo corrispondeva fino in fondo? Ed ecco l’altro polo di quest’uomo psichicamente complesso, che già l’Aretino (del quale, pur essendogli amico, ci ha lasciato un imponente quanto perfido ritratto che ne mette a nudo l’orgoglio risentito e implicitamente ipocrita), diceva esser uno che non amava i potenti, anzi li disprezzava, ma era pronto a blandirli e, attraverso l’eroico furore della propria pittura, ironizzava su di loro. Divenne presto il pittore della Serenissima con codazzo di invidie e pettegolezzi.
 
Sgomitare con savoir faire era la sua dote di giovane che vuole arrivare, e in fretta possibilmente. Fece arrabbiare Giorgione, Giovanni Bellini, per non parlare del povero Lorenzo Lotto - carattere lunatico o bilioso, che si consumò il fegato per una vita convinto di essere meglio di lui (e in qualche caso lo superò davvero) -, ma li si ritrova insieme, sebbene alla lontana perché Lotto morì quasi vent’anni prima, quando il vecchio Vecellio guardandosi allo specchio si vide nudo con solo addosso un drappo di quel color rosso sangue e quaresima che lo rese famoso; dipinse il suo confiteor in uno dei quadri più emozionanti, che purtroppo alle Scuderie non c’è, la Pietà dove si vede come un eremita venuto dal deserto o un san Gerolamo che medita sulle cose ultime ai piedi di quella madre che regge il Figlio morto.
 
A dispetto dell’indole cinica, il dolore l’aveva anche sperimentato prima perdendo l’amata moglie, Cecilia, ragazza di natali semplici, entrata nello studio del pittore dalla porta di servizio e portata all’altare dopo avergli già dato due figli, morta infine nel dare alla luce Lavinia, la terzogenita; e poi un figlio ribelle, che rifiutò la carriera ecclesiastica cui il padre lo avrebbe voluto avviare, e gliene fece vedere di tutti i colori. Ma «l’honor mio»...
Si assiste a uno sdoppiamento di personalità: un attimo prima, come si evince dal ricco epistolario edito recemente da Alinari-24 Ore, si sente il comune mortale che vive le passioni, il tedio del quotidiano e le preoccupazioni familiari; e un attimo dopo ecco che muta sembianze nel professionista e capitano d’impresa che, come Raffaello, gestisce una vera e propria fabbrica il cui prodotto oggi pone non pochi problemi agli storici nel separare la mano del maestro da quella degli aiutanti.
 
Il lavoro non si discute, così egli si applica alla sua opera con quella pervicacia che può venire solo dal desiderio di sfondare il velo che separa l’universale che dà accesso al Parnaso, da ciò che resta sepolto fra le scorie smaltite dalla storia nel buco nero dei dimenticati per sempre. A esser sinceri par proprio che non gliene importi nulla di chi ritrae, vuole solo che la sua pittura parli una lingua che non è nemmeno tesa all’individualità, ma alla forza escatologica di un colore che si fa pittura pura.
 
Da papa di santa toscana chiesa, Vasari gli imputa una carenza nel disegno; e lui potrebbe rispondergli, solo che volesse farsi provocare: del disegno ne fo’ a meno (ante-Caravaggio). Se direte che so esser più vero del vero, ecco che avrete riconosciuto in me il «creator più che pittore», come disse il Marino del Merisi. Già, a ciascuno il suo cantore. Marco Boschini, a Seicento inoltrato, cercò, con prosa barocca, di ridar vita al mito scrivendo che Tiziano dipinge «con uno striscio delle dita ponendo un colpo d’oscuro in qualche angolo, per rinforzarlo, altre qualche striscio di rossetto, quasi gocciola di sangue, che invigoriva alcun sentimento superficiale, e così andava riducendo a perfezione le sue animate figure».
Non ci si emoziona in Tiziano per ciò che si vede rappresentato, ma per ciò che è amalgamato dentro un colore che sembra non aver bisogno di studio perché esce dalla sua mano fluido e caldo come sangue. È questa la via maestra che Tiziano segue fin dal giorgionesco Battesimo di Cristo, ma ancora nelle rigidezze prospettiche che Longhi definì arcaiche, evidenti nel quadro del Vescovo Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI, dove non manca un nonsoché di pantomima ironica; la piena consapevolezza del proprio genio maturo in un quadro dell’iperrealtà come Il ritratto dell’uomo col guanto; la maestosa asimmetria della grande pala dell’Apparizione della Madonna del Vaticano, dove un giovanissimo san Sebastiano ha le fattezze dei ragazzoni delle valli cadorine, colto nell’atto di rivolgersi al regista per chiedergli quale possa debba assumere, e intanto non pare nemmeno accorgersi dell’apparizione mariana; la sensuale, prerubensiana Maddalena della Palatina, avvolta nella capigliatura serpentinata, con quelle braccione e le mani carnose che avrebbero fatto la felicità del Picasso mediterraneo, ma priva d’ogni ombra di peccato; e il grande suo promoter in Europa, l’imperatore Carlo V col cane, l’Asburgo re di Spagna che coltivò il sogno di una nuova cristianità estesa alle estreme frontiere del mondo, tela esemplare che non concede un centimetro quadrato al solo sospetto del lusso e dello sfarzo del potere; e così via, in crescendo, fino al Ritratto di Ranuccio Farnese, dove l’anticipo su Caravaggio è ancor più netto e sembra vivere in una verità emotiva che scaturisce dal profondo, forse per una interiore simpatia del pittore per il ragazzetto nipote di Paolo III (altro sublime ritratto in mostra), che diverrà cardinale, e del quale coglie con senso profetico il carattere dolce e retto, così come san Carlo Borromeo ne celebrerà la cultura e l’animo caritatevole.
 
Il percorso termina col quadro della Punizione di Marsia. E sulla parete di sinistra, alle Scuderie si vede l’autoritratto che raffigura l’ottuagenario pittore serio e quasi malinconico. Il volto lascia intuire un rovello esistenziale: a che mi serve tutta la mia fama se la vita mi sfugge? Il vecchio Tiziano e il vecchio Michelangelo, un decennio ne separa la morte, ma entrambi alla fine s’interrogarono sul senso della finitezza e la risposta che danno è il non finito, il segno blachilogico, il dito nella carne viva che fa gridare, ma ti dà la sensazione di poter resuscitare anche i morti.
 
Roma, Scuderie del Quirinale
Fino al 16 giugno
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