giovedì 18 marzo 2010
L’ex nazionale francese e difensore di Juve e Parma ora si dedica a tempo pieno all’antirazzismo e ha appena scritto un libro che presenta nelle scuole.
COMMENTA E CONDIVIDI
Finchè nel pianeta football ci sarà almeno un Lilian Thuram, allora si potrà ancora credere in un calcio e in un mondo migliore. A 38 anni, appena lasciato il campo ha creato una sua Fondazione, “Educazione contro il razzismo”, per marcare rigorosamente a uomo le coscienze degli uomini, specie quelli che hanno problemi con gli «altri» e che non riescono proprio ad accettare chi è diverso da loro. Insomma, quelli che comunemente indichiamo come “razzisti”, non sono diventati i suoi nemici, ma uomini ai quali Thuram tende la mano e soprattutto intende parlare. E ora, per spiegarsi ancora meglio, li invita alla lettura del suo libro, Mes étoiles noires, “Le mie stelle nere”.Un libro in cui lei racconta i “neri” che hanno fatto la storia e che comincia con Lucy, per arrivare a Barack Obama...«Comincio da Lucy, dalla creatura “preumana” per spiegare che proveniamo dalla stessa famiglia. Che nella storia è esistita una civiltà egiziana in cui i sovrani erano neri, così come Jean de La Fontaine per le sue favole si ispirava a quelle di Esopo che era anche lui di colore. Due esempi dei 45 ritratti che riporto nel mio libro per dire che siamo partiti tutti dall’Africa e poi ci siamo semplicemente sparsi per il mondo, ma la radice dell’uomo è unica».Una verità inconfutabile, ma che sembra non entrare ancora nella testa di milioni di persone.«La variabile in ogni cultura, è data dalla nostra capacità d’immaginare gli altri. Obama è un uomo che ha cambiato l’immaginazione del mondo che ora sa che avere un Presidente americano di colore è possibile. Ma questo ancora non basta... Per fare arrivare certi messaggi, bisogna educare le persone, lavorare sulla loro immaginazione, perché è da lì che nasce il razzismo. Io non mi stanco mai di ripetere che non si nasce razzisti, ma si diventa, proprio per una carenza d’immaginazione, accettando il luogo comune che vuole l’umanità divisa per razze».Lei ha detto che il razzismo degli stadi italiani è lo specchio di un Paese razzista.«Meglio chiarire. Il razzismo è ovunque e non c’è un Paese più razzista dell’altro. Quelli più a rischio, sono i Paesi in cui diminuisce la capacità di immaginare e di conseguenza aumenta il pregiudizio nei confronti di chi è diverso per il colore della pelle, per il suo credo religioso, per chi è straniero e povero. I poveri fanno sempre paura, ma spesso non ci si domanda: perché qualcuno ha lasciato la propria terra lontana per venire a lavorare qui in Occidente? Alla maggior parte delle persone viene spontaneo immaginare che quel povero e straniero è arrivato a “invadere” il nostro spazio e a portare un cambiamento nelle nostre vite. Ecco, il cambiamento, anche il più piccolo, fa sempre terribilmente paura».Questi discorsi va a farli anche nelle scuole, ma come reagiscono i ragazzi?«Quando vado nelle classi di bambini, loro mi dicono che riconoscono quattro tipi di razze: nera, gialla, bianca e rossa. Dei neri sanno che sono i più veloci, più forti fisicamente e cantano meglio di tutti. I gialli sono forti in matematica e campioni di ping-pong. Ai bianchi riesce bene un po’ tutto quello che sanno fare le altre due razze, mentre dei rossi non sanno niente, anche perché in Francia non si vedono più film alla tv sugli indiani d’America. Ma qualcuno, ha detto loro che quelli sono i rossi... Noi dobbiamo cambiare questa prospettiva della divisione, dobbiamo educare le persone fin da piccoli, anche perché i bambini sanno stare insieme senza provare paura per le loro differenze. E poi i bimbi vedono cose che noi ignoriamo…».Cosa vedono gli occhi dei bambini?«A mio figlio Chefren un giorno quando vivevamo a Torino e io giocavo nella Juventus, ho detto: “Tu sei l’unico nero nella tua classe, gli altri sono tutti bianchi”. E lui mi rispose: “No papà, io sono marrone e i miei compagni hanno la pelle rosa”. L’immaginazione dei bambini vede la realtà com’è e sa dargli i giusti colori, cosa che molti adulti purtroppo non hanno mai imparato a fare».Quegli adulti che frequentano le Curve dei nostri stadi urlano “buu-buu” ai giocatori di colore e cantano a Mario Balotelli che “non esiste un nero italiano”...«Anche a me facevano i “buu-buu” quando sono arrivato al Parma, così come a Fabio Cannavaro gridavano “terrone” negli stadi del Nord. Una volta un avversario mi ha detto in faccia “sporco negro”, eppure io sono un europeo, un francese. In Francia il primo giocatore di colore in nazionale è stato Raoul Diagne, i suoi venivano dalla Guyana. Venne convocato nel 1931, ma la storia francese è fatta di colonie, quella dell’Italia no. E ora immagino che ci sia chi si stupisce che Balotelli e gli altri due giocatori di colore (Ogbonna e Okaka) abbiano giocato insieme nella stessa partita con la vostra nazionale Under 21. È un fatto puramente culturale che ci sta, inaccettabile invece, è il non considerare Balotelli italiano».Il ragazzo infatti spesso reagisce male in campo. Ma è comprensibile?«Quei cori non devono fargli né caldo né freddo, perché né io né lui siamo delle “scimmie”. È quello che avrei voluto dire a Balotelli quando l’ho chiamato per parlargli, ma come molti calciatori famosi, non risponde mai al telefono... Lui comunque è una vittima del razzismo e sbagliano molti suoi colleghi e lo stesso presidente Moratti a sminuire certi episodi che si sono ripetuti. Per affrontare e superare un problema, bisogna riconoscerne l’esistenza. E ha sbagliato anche la Federcalcio che dopo la gara con il Chievo, in cui Balotelli era stato insultato, non doveva multarlo per la sua reazione, ma avrebbe fatto bene a convocare il ragazzo e a dirgli pubblicamente: guarda, noi siamo dalla tua parte, capiamo che è molto ingiusto quello che ti sta capitando e non possiamo più accettare che queste cose accadano. Ma nessuno l’ha fatto…».Nessuno, nonostante le continue minacce, finora ha avuto il coraggio di fermare una partita per i cori razzisti nonostante si sentano ogni domenica in quasi tutti gli stadi.«Le società spesso si difendono con il dire che non è possibile chiudere la bocca ai loro tifosi. Allora io penso che è ora di agire. La partita non va interrotta, facciamola finire, ma se quei cori arrivano dalla Curva della squadra di casa, il giorno dopo cominciamo con il toglierle 3 punti. Qualche presidente comincerà a riflettere e sono sicuro che a quel punto prenderanno provvedimenti molto rapidi».Cosa ne pensa del suo amico Zidane che giorni fa ha detto che piuttosto che fare la pace con Materazzi preferirebbe morire?«Conosco bene Zidane e la sua intelligenza e mi sembra molto strano che possa aver detto una frase del genere. Forse a qualcuno ha fatto comodo far passare quel tipo di messaggio che certo fa notizia. Io ero in campo in quella finale Italia-Francia del 2006 e conosco la storia e i due giocatori. Di Materazzi mi ha sempre colpito una cosa: fuori è un’altra persona, poi appena scende in campo si trasforma e questo non lo trovo giusto perché il calcio è un divertimento e non una “guerra”. E questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché il mondo ci guarda».Il calcio quest’anno vola per la prima volta in Sudafrica, un’edizione storica dei Mondiali. Che significato può avere?«Prima di scrivere il libro ho fatto un sondaggio e l’80% delle persone associava la parola “nero” all’Apartheid. Nero quindi nell’immaginario comune indica un uomo emarginato, inferiore e quindi la società in cui vive ha il timore che ciò che non è al suo livello, possa trascinare tutti ancora più in basso. Sudafrica 2010 per prima cosa può dire al mondo che questo non è mai stato vero, che l’Apartheid era ieri. Oggi Mandela e le generazioni a venire devono sentirsi non più razza o nazione, ma un’unica comunità umana in cui il primo diritto per tutti è quello alla vita».Che cosa rappresenta oggi il calcio per Thuram?«Tempo fa ero a Parma con i miei figli Marcus e Chefren e a un certo punto in una piazza c’erano due ragazzi che giocavano con un pallone. Dopo qualche minuto sono arrivati altri due e con loro c’era una ragazza che ha messo la sua borsa a terra a fare da palo. Poi altri due ancora, ed erano di colore e di nazionalità diverse. Alla fine, sotto i nostri occhi hanno giocato per un’ora una partita 6 contro 5. Ecco, per me rimarrà sempre l’immagine vera di questo sport. Un linguaggio universale che esprime la voglia di condividere, da quando sei bambino fino al giorno in cui avrai ancora voglia di giocare insieme agli altri. E in questo, il calcio è davvero lo specchio della vita».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: