venerdì 14 febbraio 2014
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La prima medaglia olimpica di Londra 2012 era stata di Luca Tesconi, argento nel tiro a segno. Siamo ormai a metà del nuovo quadriennio e da allora questo toscano di 32 anni si è dedicato soprattutto alla fotografia. “Non luogo” è la sua prima mostra personale, racconta gli ex manicomi dismessi: già ospitata a Pietrasanta, da domani e sino al 9 marzo sarà a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi.Tesconi, lei prende la mira con la macchina fotografica come con la pistola ad aria compressa?«Sì. E l’inglese "to shoot" significa fotografare ma anche sparare. Sono la mia vita, di carabiniere per il Centro Sportivo di Roma. Impugno la pistola o la macchina fotografica e fisso un obiettivo, bersaglio o dettaglio, e sparo o scatto...».Salì sul podio nel primo giorno olimpico e anche in quella occasione collezionò un centinaio di immagini.«Mi piacerebbe produrre un reportage sportivo, il backstage di una gara: raccontare come ti prepari e poi magari piangi perchè è andata male o hai vinto. Insomma momenti intimi, che in genere confido al mio allenatore Marco Masetti».Come festeggiò con i 75mila euro lordi dell’argento londinese?«Ho rinnovato gli obiettivi della macchina e comprato una nuova Nikon. Fotografando mi ricarico, distraendomi dal bersaglio: mi alleno 5 volte la settimana, 4-5 ore al giorno e preparo 1-2 gare al mese; la mattina lavoro verso gli Europei di Mosca (in programma dal 2 al 6 marzo n.d.r.), nel pomeriggio organizzo la mostra. E a settembre sarò in forma per i Mondiali di Granada".Si ispira al veronese Roberto Di Donna, oro ad Atlanta ’96?«Per la nostra disciplina lui è stato a lungo punto di riferimento. Vorrei tornare a medaglia a Rio de Janeiro nel 2016 e resistere sino a Tokyo 2020».Lei definisce la rassegna “Non luogo” un viaggio negli stati della mente...«Perchè tratta di pazzia e demenza. Sono entrato in 6 complessi chiusi con la legge Basaglia numero 180: dal 1978 i malati psichiatrici sono affidati ai servizi territoriali. In due anni ho visitato strutture dismesse in Toscana, Lazio, Emilia e Lombardia».Era accompagnato da Francesca, sua ex fidanzata. «Entravamo di nascosto, con sotterfugi, del resto sono posti abbandonati. Una volta dopo 6 ore non trovavamo l’uscita: le finestre hanno le sbarre, le porte sono murate e tutte uguali. Il telefonino non prendeva, vagammo per 45 minuti, finchè tornammo all’unica finestra da cui eravamo entrati». Quindici immagini saranno ospitate ora nella sala allestita dal Credito cooperativo di Cambiano, con il beneplacito del sindaco Matteo Renzi.«La struttura è in alluminio e fatta a spirale, all’interno ci si perde come in un labirinto mentale, così il visitatore riesce dall’ingresso».Difatti ci sono “l’entrata”, “le attese” e poi “l’anamnesi”, ovvero diagnosi, terapie e cartelle cliniche...«C’era chi soffriva di leggera schizofrenia, si vedono lastre e prescrizioni di medicinali. Poi arrivano “i passaggi” e “le scritte”, forti davvero. Una sala è intitolata “bestie”, presenta graffiti su sette sataniche e messe nere; si chiude con “solitudine”. Il male di vivere si esprime anche attraverso disegni e schizzi di sangue, alcune pareti raccontano storie terrificanti».Perchè un percorso tanto singolare?«Da bambino rimasi colpito dai racconti di mio padre Mauro: ha 65 anni, faceva il rappresentante di psicofarmaci al manicomio di Maggiano, sempre in provincia di Lucca. Da ragazzo si allenava con le armi, riprese nel 2001 e mi portò al tiro a segno».E com’è sbocciata la passione per le foto?«Quando papà mi regalò una vecchia Minolta a rullino. Avevo 16 anni, ero in seconda superiore all’istituto d’arte: presi il diploma e iniziai l’accademia di scultura a Carrara, il servizio militare però mi fece interrompere gli studi». Cosa la affascinava di quei racconti degli ex manicomi?«Le grandi sale, le sbarre alle finestre e le porte blindate con gli spioncini da 10 centimetri: erano l’unico contatto con l’esterno. Si facevano mille controlli, i medici giravano con il carrello dei farmaci e i malati erano in fila con gli occhi sbarrati. Sembrava che a qualcuno avessero spento il cervello, chiedeva una sigaretta e la finiva in una tirata. E papà non vedeva mai i pazienti più pericolosi: erano legati al letto, in stanze appartate...».Per questa “Non luogo” trasse l’ispirazione anche dai libri di Mario Tobino, direttore dell’ospedale psichiatrico di Lucca...«Era nel reparto femminile, è morto nel ’91. Gli ultimi dubbi svanirono leggendo “Marta che aspetta l’alba”, di Massimo Polidori, racconto di una infermiera del manicomio».In quei luoghi della sofferenza ha trovato anche lettere dei malati mai recapitate?«Soprattutto di uno scultore toscano fatto rinchiudere dal padre benché sano. Un secolo fa ebbero un violento litigio, scolpivano entrambi, l’anziano era dedito all’arte sacra e il figlio preferiva lo stile futurista o alla Modigliani: restò dentro a vita, scriveva e disegnava momenti di altri ricoverati...».Non è un po’ da matti anche visitare furtivamente i manicomi?«In fondo ciascuno a modo proprio è folle, è pazzesca anche la vita da atleta: tre giorni in Norvegia e poi magari in America, con le valigie sempre aperte». Ha pure soggetti leggeri, per le sue fotografie?«In Thailandia ho immortalato le strade, momenti di vita a Bangkok. In Toscana il Carnevale di Viareggio e Lucca Comics: vivo a Pietrasanta e una settimana al mese a Milano in ritiro con la nazionale».La mostra sarà itinerante?«Lo spero. Tre foto della serie “bestie” andranno in Svizzera, a Losanna. Trovassi altri ex manicomi, ritrarrei anche quelli».Intanto incassa i complimenti di due registi...«Del messicano Alfonso Cuaron, premio Golden globe per “Gravity”. E all’indiano Tarsem Singh, di “Biancaneve e Immortals”, le foto sono talmente piaciute che mi ha scritto una recensione e forse ambienterà il prossimo film in manicomio».
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