martedì 7 luglio 2009
Raj Patel, economista: «Per la prima volta aumentano gli affamati anche nei Paesi ricchi, perchè la produzione alimentare su larga scala fa salire i prezzi e crea pandemie».
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Ha avuto coraggio perché ha permesso a molte persone nel mondo, da Nord a Sud, di capire chi c’è dietro un codice a barre, cosa succede nella grande distribuzione, a che prezzo qualcu­no paga il piacere di una tazzina di caffé. Raj Patel, studioso delle poli­tiche alimentari, formatosi a Oxford e docente nelle università di KwaZulu-Natal (Sudafrica) e Berkeley, è un «ex» della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ( Wto): appena uscitone, ha deciso di im­pegnarsi contro queste strutture e il suo I padroni del cibo (Feltrinelli, pp. 286, euro 16) ne è l’esempio il­luminante. Dati e argomentazioni stringenti su cibo e globalizzazione che alzano il velo, ad esempio, sull’uso della soia nell’industria a­limentare, sull’abuso dei «semi mi­racolosi », sullo strapotere dell’a­grobusiness . Temi non lontani dall’agenda politica di questi gior­ni al G8 dell’Aquila, e dal prossimo World Food Forum di Roma, in no­vembre, appuntamenti dai quali anche Patel attende soluzioni: «I grandi della Terra dovrebbero dare seguito a quanto disse Bill Clinton, ammettendo di aver sbagliato nel ritenere che il cibo sia solo una delle tante materie prime. Il cibo è un diritto dell’uomo e il modo mi­gliore per non negarlo a nessuno è produrlo e distribuirlo equamente liberandolo dai valori di Borsa che lo definiscono commodity, materia prima. Naturalmente, è improba­bile che i Paesi più ricchi imposti­no il dialogo su questi presupposti, ma il nostro dovere di cittadini è fare in modo che ci arrivino». Per il recente rapporto Fao più di un miliardo di uomini soffre la fa­me, e di costoro sempre più vivo­no nei Paesi ricchi. Non era mai successo prima. Com’è possibile? «Il cibo è sottoposto alle leggi del mercato internazionale, alle flut­tuazioni di prezzo, alle speculazio­ni. Il Nobel Amartya Sen ha osser­vato che c’è una somiglianza tra il fenomeno attuale e le carestie sino all’ultima guerra. Allora, nonostan­te ci fosse sempre cibo nelle vici­nanze, le persone non potevano accedervi perché un drappello di speculatori controllava le derrate. La finanza internazionale fa lo stesso, adesso, su larga scala». La sua inchiesta è una denuncia rara e coraggiosa delle multina­zionali. Quando riusciremo a in­vertire la tendenza secondo cui chi mangia «consuma»? «In Italia è già accaduto e Slow Food cerca di portare avanti queste ragioni. Ma in tutto il mondo si diffonde sempre più un approccio politico e non semplicemente este­tico al cibo. La produzione di riso gestita dai movimenti locali è un buon passo in questa direzione». Perché le materie prime agricole oggi costano più che in passato? E perché costano molto di più nei Paesi in via di sviluppo? «Ancora no, ma nel futuro coste­ranno certo di più. Le cause sono il collasso ambientale, il cambia­mento climatico, la penuria d’ac­qua e il rincaro energetico. E, visto che il mondo è un mercato unico, i prezzi si innalzeranno ovunque». Sempre più pandemie si sviluppa­no da un errore nella catena ali­mentare, forzata dall’uomo. La si­tuazione tenderà a peggiorare? «È innegabile che le paure maggio­ri degli ultimi anni vengano dalla produzione industriale su larga scala. Influenza suina e aviaria so­no creature delle multinazionali del cibo che preparano il terreno a questo tipo di malattie, dove la mancanza di regolamentazione e trasparenza (avversata dall’indu­stria del cibo) significa una sola co­sa: se non sappiamo esattamente ciò che stiamo mangiando (e più il cibo è trattato, più davvero non lo sappiamo), stiamo diventando ca­vie di esperimenti pericolosi den­tro i nostri stessi corpi». Si parla di sicurezza alimentare. Cos’è e perché va perseguita? «Facciamo un esempio: lo scirop­po di mais si usa spessissimo, ma un accademico americano ha di­mostrato che è un veleno. È neces­sario regolarizzare il sistema ali­mentare non in base ai profitti del­le aziende, ma servendoci dei prin­cipi precauzionali della scienza». Nei Paesi ricchi come possiamo opporci alla strumentalizzazione del consumatore o alla stigmatiz­zazione delle persone obese? Co­me possiamo cambiare atteggia­mento nei confronti del cibo? «Tanto chi vive nei Paesi ricchi, quanto chi vive nei Paesi poveri è sfruttato dalle multinazionali, na­turalmente in modo diverso. Una delle soluzioni è far convergere i consumatori in un’azione politica ed economica condivisa e alter­nativa. Per quanto riguarda la paura dell’obesità, aumentano le associazioni che hanno come o­biettivo il cambiamento del giu­dizio sulle persone grasse, ac­compagnandolo con nuove poli­tiche culturali sul cibo». Per Pascal Lamy, direttore del Wto, nel commercio internazio­nale la situazione è grave e le conseguenze sociali saranno gravissime. Qual è il suo parere? «La situazione è terribilmente seria, ma non per le motivazioni che Lamy adduce. Nella sua vi­sione, per prevenire la fame bi­sogna incrementare il commercio. Non è lo stesso punto di vista dei Paesi in via di sviluppo, che finora hanno importato cibo ma hanno capito che solo aumentando la produzione locale saranno immu­ni dalle speculazioni sui prezzi». Lei ha lavorato per il Wto. Perché poi ha smesso la collaborazione? «Non è stato un impegno molto lungo, il mio, nel Wto. Tuttavia lun­go abbastanza per riscontrare un dogmatismo economico diffuso. Il Wto rischia di essere solo un’in­venzione burocratica».
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