giovedì 29 maggio 2014
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​Gli uomini hanno sempre parlato, narrato e poi scritto della terra. Delle sue manifestazioni più diverse e contrastanti. Ora celebrandone le fecondità, le prodigalità, le meraviglie; ora gli smarrimenti e le paure. Dinanzi alla sua avarizia, alla fatica di trarne di che vivere, alla sua potenza devastatrice. Non c’è da sorprendersi dunque che, fin dalle epoche più arcaiche, la si sia divinizzata, reputandola onnipotente. Ravvisando in essa le malvagità e le crudeli bizzarrie, ma anche le generosità gratuite, che già dovettero appartenere ai vizi e alle virtù umane. I nostri progenitori hanno inventato per lei storie leggendarie, coniato i miti antropomorfi più celebri, fin dagli albori del mondo; nonché i culti religiosi più terribili: pur di placarne l’ira, tentando di ingraziarsela e vanamente controllarla del tutto. I racconti dei coltivatori, degli artigiani, dei primi geometri, ben presto ci tramandarono anche la storia dell’ingegno e del lavoro umano per sfruttare le risorse naturali e renderle meno aggressive. Così come in Occidente e Oriente, troviamo le prime tracce dei racconti politeistici dedicati a simili atavici conflitti. A quella energia prodigiosa – che il filosofo Spinoza nel 1600 avrebbe chiamato Natura naturante, Sostanza prima – fonte di vita, ma già annuncio di un’immancabile morte, che nulla e nessuno sulla terra risparmia di carattere organico. Secondo leggi eterne, cui altre storie avrebbero fatto seguito. Soprattutto quella della Grande madre, nutrice e al contempo inaffidabile matrigna, affamatrice, omicida, che – per millenni – alimentò, trasformò, moltiplicò simili narrazioni; il cui scopo consistette nell’educarci ad accettare la nostra finitezza. Dalle quali altri racconti ancora scaturirono, per consolarci con promesse di immortalità o di rinascita.Nel monoteismo biblico, e in un ben altro disegno narratologico, di tipo profetico e teleologico che non identifica il Creatore con la natura: la terra nasce grazie alla Parola del Dio unico; come lo si trova descritto nel Vangelo di Giovanni (Gv 1,1-3). Nell’istante in cui il Verbo ( il Logos), che era «presso Dio» ed «era Dio», fece «tutto ciò che esiste». Dio genera la vita, ma non vi coincide, non è un’entità impersonale, ma ci parla, ci giudica, ci accompagna, ci lascia liberi ed è misericordioso. Il linguaggio, come fonte di ogni parola, voce, idioma renderà loquace ogni evento della creazione, per tramite nostro. Le parole ci consentiranno pertanto, da quel momento in poi, di rappresentare la vita, di attribuirle storie molteplici, di raccontarne ogni fenomeno inerente la nostra e le altrui specie. A noi stessi verrà data la facoltà di narrarci in prima persona, di attribuire un nome ad ogni cosa del mondo, di offrire alla natura un suo lessico privo di parole. Siamo stati e saremo sempre e soltanto noi a offrire alla terra la possibilità di raccontarsi con alfabeti le cui frasi saremo noi a comporre. Abbiamo imparato a riconoscere in essa i codici cifrati, gli annunci di sventura o di salvezza; ne abbiamo tradotto i linguaggi non verbali: i fatti, i suoni, i fragori, i sapori, le forme visibili e in gestazione, gli odori. È emblematico quel passo della Genesi nel quale si narra di Dio il quale, dopo aver portato a termine l’opera sua, condusse Adamo nel giardino dell’Eden (Gen 2,19-20). Per osservare come avrebbe chiamato gli uccelli, le piante, ogni essere vivente.
Purché questo suo compito venisse assolto non per diventarne il dominatore assoluto, e tale da «incutere timore e terrore» in ogni creatura (Gen 9, 1-2); bensì per esserne il sollecito e premuroso «custode». Per evitare che con la distruzione materiale di ogni cosa creata, anche al Verbo toccasse la stessa fine e il silenzio più assoluto potesse eternamente impregnarsi di tenebre. La terra di cui si racconta nel Primo Testamento è chiamata, anche grazie a noi, a rendersi esprimibile all’insegna degli stupori e degli incanti di cui sa essere un’infaticabile suscitatrice. Quando soprattutto la terra si rende accogliente, favorisce l’amore e la procreazione tra i viventi e ci affida l’onere di qualificarli. Ne troviamo le prime tracce poetiche in quei giochi d’amore di cui l’autore del Cantico dei cantici ci narra la dolce bellezza. La terra torna ad essere in questo straordinario passo testamentario un luogo paradisiaco. Dove la donna e l’uomo si raccontano a vicenda: e l’una in un passo paragona l’amante ad «un melo tra gli alberi del bosco» (Ct 2,1-4). Ma come non rammentare, ritornando alle narrazioni mitologiche, la gioia per il ritorno dagli Inferi, ogni primavera, di Persefone? La figlia di Demetra, la dea delle messi e della prosperità. L’Inno omerico dedicatole fu, con altri, uno dei primi canti elegiaci nei quali si esprimeva un’ampia gratitudine alla terra, inaugurando un genere che, in epoca cristiana, con Francesco e i poeti dei canzonieri, avrebbe segnato profondamente ogni letteratura successiva fino ed oltre il Romanticismo. Non c’è autore dell’antichità, aedo, cantore, scrittore o filosofo (pensiamo soltanto ad Omero, ai numerosi lirici greci, a Virgilio, a Ovidio, a Seneca, ecc.) che non abbia tratto ispirazione dalla terra, per collocarvi le avventure e le vicissitudini dell’umanità. Non ci fu o c’è scrittore o poeta, che non abbia descritto la natura, in ogni stagione dell’anno, nelle diverse ore del giorno e della notte, eleggendola anche a sfondo di ogni vicenda o dramma che includesse o escludesse la presenza degli uomini e delle donne. Non possiamo dimenticare inoltre la filosofia presocratica, oltre a quei primordi del pensiero scientifico, che grazie ad Aristotele, ci permisero di elaborare i primi discorsi cosmologici sulla terra (e i suoi altri elementi fondativi: l’aria, il fuoco, l’acqua, ecc.) ed ogni sua manifestazione spettacolare o all’apparenza irrilevante.
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