lunedì 31 ottobre 2016
Intervista a Franco Farinelli, autore di «L'invenzione della Terra». Dall'economia alle scienze cognitive, tutto mostra che non esistono più linee stabili di divisione
Il geografo: la globalizzazione ha abolito i confini
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«La globalizzazione ci costringe a reinventare la Terra» sostiene il geografo Franco Farinelli. Ma definirlo geografo è riduttivo. A leggere i suoi libri e a parlagli sembra un umanista dei tempi di Erasmo. Abile nel muoversi tra discipline diverse, Farinelli è capace di pensiero come ormai i filosofi sanno fare. In occasione della nuova edizione del suo L’invenzione della Terra (Sellerio, pp. 154, euro 16), gli chiediamo cosa intende con reinventare la Terra.

«Reinventare va colto nel senso etimologico e quindi la Terra va ritrovata. Abbiamo urgenza di formulare nuovi modelli di addomesticazione del mondo. Il nostro pianeta non è dato perché frutto di elaborazione attraverso quelle protesi speciali che sono i nostri modelli interpretativi».

In quale direzione occorre muoversi per ritrovarla?

«Abbiamo spesso dimenticato che la Terra ha tre dimensioni. E la dimensione trascurata è quella ctonia, la sua profondità. Pensi ai movimenti sismici… occorre partire dalla concretezza».

Ma perché dobbiamo inventarla di nuovo?

«La globalizzazione ha messo in discussione le vecchie rappresentazioni. Ancora Braudel parlava di economie-mondo da cui si irraggiavano flussi commerciali su tutto il pianeta. Allora la Terra non era considerata un unico globo come invece avviene oggi in virtù dello sviluppo delle tecnologie. Nel Mercante di Venezia di Shakespeare ritroviamo la più vivida rappresentazione di come la si considerava nel passato. Shylock, il mercante cattivo, chiede "Vuoi tenere Venezia per la gola?"»

Quale risposta dava?

«"Blocca lo stretto di Malacca". Perché questa risposta? Allora la distanza e il tempo erano rilevanti. Oggi, con la nascita della rete, spazio e tempo sono residuali. Kant non avrebbe capito il nostro mondo. Occorre trovare delle inedite strategie cognitive per raccontare questa trasformazione».

Parag Khanna ci ha provato parlando di connectography.

«Il pensiero di Khanna ruota su una semplificazione. È persuaso che la Terra sia in via di rivolgimento e che tutte le differenze siano annichilite dal funzionamento del mondo stesso. In questo sfiora il ridicolo. Oggi un libro americano, Prisoners of geography, pur con altre semplificazioni, gli risponde mostrando come le differenze continuino a persistere».

Spesso si parla di geostoria. Potrebbe fornire un contributo alla reinvenzione della Terra?

«Il modello della geostoria è vecchio di almeno cento anni. Nasce dall’applicazione alla storia della geografia allo scopo di rianimare una disciplina morente. Ma se si legge il testo fondatore di questa disciplina scritto da Lucien Febvre nel 1922 ci si accorge che la geostoria si sviluppa in funzione antitedesca. Nel testo si polemizza contro Friedrich Ratzel ritenuto nazista. Peccato che questo maestro del rigore scientifico si basasse su una citazione di poche righe tratte non da un libro di Ratzel, badi, ma da un articolo in francese».

Eppure la questione dello spazio tocca un po’ tutte le scienze umane.

«Anzi sopravvivono grazie a questa scelta spaziale che ha fertilizzato i loro saperi. Ovunque tranne che in Italia naturalmente dove ancora si trascura la geografia».

Tornando alla globalizzazione. Essa comporta anche una critica all’idea di confine. Cosa ne pensa?

«La critica dell’idea di confine deriva dalle scienze cognitive. Ormai tutti criticano Cartesio. Nessuno crede più alla sua ipotesi di una mente chiusa dentro l’uomo. Le scienze cognitive parlano sempre più spesso di menti estese. Oggi la relazione tra mente e realtà esterna è assodata e quindi si pensa che le limitazioni e i confini non abbiano senso».

Epperò sopravvivono.

«Senza il riconoscimento dei limiti non potremmo distinguere. Lo ricordava già Leibniz sostenendo che essere è giudicare. E giudicare significa fare a pezzi la realtà. Il nostro dispositivo biologico lo testimonia perché si attiva in presenza di limiti. Percepiamo gli oggetti quando scattano i differenziali di luminosità».

Più nel concreto…

«Guardiamo alla geopolitica. Ormai il modello geografico attuale, sviluppatosi nel Settecento e imperniato sui continenti, non vale più. La globalizzazione ha smontato la struttura spaziale del mondo invalsa dai tempi di Tolomeo e costruita sulla misura metrica lineare standard. E la Brexit è un effetto di questa rottura e della globalizzazione e di un ritorno in auge della sovranità nazionale. Brexit avviene perché i continenti non sono più un riferimento».

Gli stati sembrano ovunque riaffermare il loro ruolo, però.

«Le crepe aperte dalla globalizzazione le vive ognuno di essi. Le strutture geometriche su cui si reggono, e Hobbes lo sapeva bene, sono la continuità, l’omogeneità e l’isotropismo cioè i cardini della geometria euclidea. Oggi occorre invece un’altra geometria. La rete disubbidisce allo spazio e ne rovescia il senso. Ecco perché la Terra va reinventata, assumendo la sua sfericità, la sua tridimensionalità. Ma è complicato perché non siamo in grado di formalizzare una sfera. Essa possiede sempre una faccia nascosta che non si conosce».

Dove sono evidenti le debolezze degli Stati?

«L’immigrazione. Il principio nascosto della modernità è che i soggetti non si muovono. Su questo principio si regge lo Stato. Pertanto, basandosi sulla staticità, non riesce a gestire i flussi migratori».

Come se ne esce?

«Dovremmo risalire agli umanisti come Tommaso Moro».

In che senso?

«Utopia è il sogno di una conciliazione tra luoghi e spazio che la modernità distrugge. È il sogno in cui lo spazio disumano convive con i luoghi umani. Moro dice che le cinquantaquattro città dell’isola hanno la stessa pianta ma ognuna è diversa perché deve adattarsi al luogo in cui è costruita. Sono i valori locali a trovarsi al centro della riflessione di Moro».

E oggi perché conta questa riflessione?

«Con la frantumazione dello Stato sono i valori locali a emergere. La riduzione del mondo a spazio, in epoca moderna, avveniva in funzione della velocità. E da questa si estraeva valore. Oggi invece si estrae valore dai luoghi. E qui si apre una nuova partita perché è il un sogno di certo capitale. Ma potrebbe essere anche la sua fine».

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