domenica 30 aprile 2017
La mostra “La terra inquieta” alla Triennale di Milano racconta in modo complesso e articolato il fenomeno migratorio, mettendo in luce le spinte profonde di un esodo dalle proporzioni bibliche
Francis Alÿs, "Don't cross the bridge before you get to the river", 2008, video e documentazione fotografica di un'azione (Courtesy Francis Alÿs and David Zwirner, New York/London)

Francis Alÿs, "Don't cross the bridge before you get to the river", 2008, video e documentazione fotografica di un'azione (Courtesy Francis Alÿs and David Zwirner, New York/London)

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Quello tra arte e attualità è un connubio complicato. Esplorato fin dall’Ottocento, è diventato uno di pilastri su cui si è costruito, e anche infranto, il Novecento. L’intensificarsi del fenomeno migratorio e le tragedie susseguitesi nel Mediterraneo ha ridato negli ultimi anni nuovo slancio al binomio, portandone però anche allo scoperto tutti i rischi (derive retoriche, protagonismo, inaridimento sul fatto di cronaca, rapida obsolescenza) ben evidenziati ad esempio da un artista come Ai Weiwei. Che non a caso è assente in “La terra inquieta”, bella, intensa e potente mostra a cura di Massimiliano Gioni da poco inaugurata alla Triennale di Milano e aperta fino al 20 agosto, promossa da Fondazione Nicola Trussardi e Fondazione Triennale di Milano. Gioni è riuscito nella non facile impresa di costruire un’esposizione su trasformazioni epocali che toccano nel profondo il nostro presente evitando tutte, o quasi, le secche. Una mostra che raggiunge l’obiettivo dichiarato di «rivendicare il valore politico dell’immagine». E questo perché ci sono elegia, epica e lirica nei registri dei sessantacinque artisti selezionati da vari Paesi del mondo, dall’Albania all’Egitto, dal Ghana al Libano, dall’Iraq al Marocco alla Turchia oltre a Europa e America. Un percorso saldo di opere che riescono a restituire i molti livelli del fenomeno, in gran parte evitando i sensazionalismi e le speculazioni politiche e ideologiche che imperversano nei media. Questo accade perché in molti casi gli artisti provengono da territori toccati dal fenomeno migratorio (il Nord Africa e l’area subsahariana, il Medio Oriente) e in alcuni l’hanno vissuto essi stessi (come Danh Vo). Si avverte anche un diverso approccio al tema a seconda delle provenienze: più culturale, politico e metaforico quello degli europei, ancorato a un racconto che salvi la storia del singolo dalla sommersione della storia negli artisti degli altri continenti.

Una diversità di approccio che risalta nell’apertura, con i due grandi collage di Thomas Hirschhorn in cui troviamo mescolati alle rovine di Atene e di Roma le macerie di Aleppo, come se fossero quelle di un’intera civiltà. O negli stendardi ricoperti di fango del bulgaro Pravdoliub Ivanov, il gran pavese delle bandiere degli Stati fondatori dell’Europa unita ridotto una sorta di parata della vergogna: un lavoro che nasce nel 1995 dopo le tragedie balcaniche ma che dimostra, purtroppo, una costante validità nel rimarcare la distanza della politica continentale dalle tragedie contemporanee.


Ma soprattutto emerge, come un filo rosso, una lettura di queste migrazioni di massa da parte degli artisti che non è solo fisica (ossia storica, economica o sociale) ma anche metafisica: una natura, potremmo dire, biblica, in questo attraversare un mare in cerca di una terra promessa. Xaviera Simmons utilizza immagini di migranti in mezzo al mare, tratte dai mezzi di comunicazione: foto di oggi, foto di alcuni anni fa, foto di molti decenni addietro. Le immagini, decontestualizzate dalla cronaca, sono tutte accomunate dalla sensazione di attraversare un ignoto estremo (Superunknown (Alive in the), citazione grunge, è il titolo dell’installazione), il traghettamento da una vita a un’altra come se il luogo da raggiungere fosse un’aldilà, da un inferno certo a un ipotizzato (e spesso irrealizzato) paradiso. In questo senso acquista una forza essenziale e un enorme potenziale emotivo la rassegna di oggetti appartenuti ai 368 morti naufragati il 3 ottobre 2013 alle porte di Lampedusa: borse, rosari, immagini sacre, anelli, cellulari, tutti pegni di una vita futura. Non è presenza retorica, questo contatto diretto con la realtà, ma dona forza di verità a tutto il resto. E la sala, grazie al Memoriale per i rifugiati annegati di Meschac Gabaacquista, ha carattere sacrale: una pila di coperte grigie e tre lanterne costruiscono l’immagine e la presenza di un ceppo funebre come un altare, corredato di tre lampade votive.

Il concetto di limite è centrale nel lavoro di Francis Alÿs, vero perno della mostra: la sua installazione ( Non attraversare il ponte prima di arrivare al fiume), che combina piccoli dipinti, carte geografiche e video, supera l’idea di confine, varcato dai migranti, come solo quello tra Stati ma la amplia a quella di confine tra “noi e loro”, tra “lasciare e ritornare”, tra “conosciuto e sconosciuto”, tra “inizio e fine”, tra “dentro e fuori”. Alÿs si muove a cavallo dello stretto di Gibilterra, tredici chilometri di acqua che separano Africa e Europa. Com’è possibile, si interroga Alÿs, che nel momento in cui promuoviamo un’economia globale e movimentiamo mercati e capitali attraverso i continenti, allo stesso tempo ci impegniamo per impedire che i popoli attraversino gli stessi confini? In due video contrapposti, girati sulle due sponde dello stretto, spagnola e marocchina, vediamo due file di bambini incamminarsi con in mano delle barchette colorate fatte con sandali e scarpe, per costruire un ponte umano: un ponte impossibile, certo, ma che parla della profonda ostinazione propria della speranza.

Bouchra Khalili, 'The Mapping Journey Project', 2008- 2011, video installazione (Courtesy Bouchra Khalili and Galerie Polaris, Paris. Foto: Benoit Pailley)

Bouchra Khalili, "The Mapping Journey Project", 2008- 2011, video installazione (Courtesy Bouchra Khalili and Galerie Polaris, Paris. Foto: Benoit Pailley) - Benoit Pailley


Ma sono in tanti a evidenziare che l’Eden possa essere un limbo (il video di Adrian Paci Centro di permanenza temporanea, in cui i migranti sostano su una scaletta di un aereo in attesa di un velivolo che non arriverà mai), o un altro inferno (i neon di Glenn Ligon, dove la parola “America” è scritta ribaltando le lettere, a marcare la distanza tra sogno e realtà). Lo raccontano le mappe (una chiave adottata anche da altri, come Mona Hatoum e El Anatsui) della marocchina Bouchra Khalili, centrali nell’allestimento di Gioni, lavori che nella disarmante semplicità – i migranti raccontano il loro viaggio tracciandone le tappe su una cartina del continente europeo – rende chiaro cosa accade ogni giorno sotto i nostri occhi. E che dimentichiamo essere stato anche la nostra storia. Ci pensano in mostra le fotografie di famiglie siciliane che arrivano spaesate a New York. E le copertine della “Domenica del Corriere” dove troviamo migranti morti – i naufragi dei piroscafi nell’Atlantico e non dei barconi nel Mediterraneo – e masse di contadini pronte a partire da Genova, mosse dalla fame. Parole e fatti che ritornano, come «l’odissea degli emigranti clandestini. Abbindolati da losche organizzazioni, avviati verso il confine, senza il minimo equipaggiamento invernale, e poi abbandonati in preda alle montagne in mezzo al gelo, alla neve e alla bufera, cinquanta siciliani – fra cui alcuni ragazzi – vengono soccorsi nell’Alta Valle d’Aosta da una pattuglia di carabinieri e riaccompagnati al piano per essere rimpatriati». Era la “Domenica del Corriere” del 29 dicembre 1946.

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