mercoledì 13 aprile 2011
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L'attuale scenario della crisi sistemica nel nostro Paese è caratterizzato da tendenze di fondo, che i sociologi definiscono "correnti socioculturali". Queste incidono, in modo diffuso, negli stili e nei comportamenti profondi della vita quotidiana dei cittadini. Ovvero tendenze sociodemografiche: cresce in modo vertiginoso l’invecchiamento della popolazione italiana; tendenze al consumo: i consumi sono sempre più legati a benessere e salute, decresce l’attenzione alla qualità dei prodotti; multicanalità: cresce l’importanza e l’influenza dell’universo web negli acquisti e nella relazionalità produttrice di lavori; personalizzazione: i consumatori cittadini ritengono fondamentale che l’offerta di prodotti sia omogenea ai propri stili di vita. Colpisce l’attenzione in recenti sondaggi, provenienti da multinazionali della consulenza, nei confronti dei temi della sensibilità al futuro. Anche se si colgono abbassamenti di livelli d’ansia rispetto ai picchi del 2009. Tra le tendenze di forte incidenza, emergono le dinamiche demografiche che hanno coinvolto radicalmente l’area occidentale europea, ma in Italia abbiamo il primato mondiale della "crescita zero" di prolificità. Siamo malati, come spiega bene in molti suoi lavori Giancarlo Blangiardo, il quale sostiene che nessuno, alla metà degli anni Settanta, in un clima di "boom" demografico, avrebbe immaginato che in un paio di decenni avremmo raggiunto una decrescita nelle nascite così verticale. E ancora: chi solo 30 o 40 anni fa avrebbe previsto il raddoppiamento degli anziani dal 1971 al 2010? Oggi un giovane su tre è disoccupato, questo emerge dai recenti dati Istat. In termini percentuali risulta in cerca di lavoro il 29% dei giovani sotto i 25 anni. Si connette a questo complesso di dinamiche socio-demografiche un altro dato, corposo, di rendite immobiliari e politiche. In un libro di qualche anno fa Geminello Alvi metteva in luce come il nostro Paese fosse il territorio più bloccato da rendite di ogni tipo. Con intrecci tra l’economia, la politica, la finanza e il sistema dei media, con grave carenza nei ricambi delle classi dirigenti. La critica che faceva Alvi è che con l’attuale criterio di misurazione del Prodotto industriale lordo (Pil) misuriamo solo la potenza della produzione e basta. Non si evidenziano i tanti sottosistemi "poliarchici" che si sono formati come costituzione materiale nei rapporti di forza tra le innumerevoli frazioni sociali e che incidono sulla mancanza di scorrimento, dal basso verso l’alto, sulla circolazione di nuove élite. Poliarchie fameliche e burocratiche che compongono un groviglio sociale inestricabile, in una complicata rete di "patti". Cresce, perciò, un complesso di mercati dei lavori con sempre meno giovani, con salari sottodimensionati a vantaggio dei profitti oligarchici. Non è per niente una novità questo fenomeno. Già agli inizi del Novecento, Gaetano Mosca aveva indicato come tutte queste «rendite di posizione» siano immanenti a qualsiasi sistema politico. Ma evocare queste prospettive significa sollevare, in tutta la sua complessità, la questione delle tendenze corporative e gerontocratiche, come ben spiegava Gianfranco Miglio, specialmente emergenti nell’area geo-culturale delle tante repubbliche "mediterranee" che esprimono, molto di più che i Paesi del Nord Europa, alcuni aspetti peculiari. Una forte crescita di rendite e "catene" politiche e ancora delle tendenze oligarchiche come attuale fase della democrazia in crisi. È il tema della tardo-democrazia. Si sono finora studiati casi di traduzione istituzionale, come il corporativismo crescente, da un’ottica troppo moralistica che vi scorge una grande corrente di "degenerazione etica". Non c’è dubbio che la crisi etica esiste, ma nella tarda-democrazia la prospettiva oligarchica scaturisce dai processi di crisi sociale e strutturale che connotano i declini storici delle democrazie liberali. Bisogna rilevare un fatto innegabile: i differenti strati oligarchici e generazionali, come quelli presenti nelle potenti fazioni politiche e dei media, costituiscono delle vere e proprie caste che bloccano qualsiasi ringiovanimento e producono dispersione di energie sociali. Le recenti ricerche attorno a queste dinamiche, mostrano che una parallela questione gerontocratica si aprirà con la drammatica questione dei ricambi generazionali tra "padri e figli" in azienda. Questi nodi irrisolti emergono anche nell’ultimo Rapporto Censis. Per Giuseppe De Rita non abbiamo spessore perché non funziona il nostro inconscio personale e collettivo. Il rilievo che nel Rapporto viene dato all’intreccio tra dinamiche psichiche e disagi collettivi è felicemente sorprendente. Da tempo gli stimoli più interessanti provengono da quegli studi, come ci ha insegnato Gian Paolo Fabris, specialmente in uno dei suoi ultimi lavori, che enfatizza le connessioni simboliche della vita quotidiana, le psicopatologie della vita giovanile e le connessioni tra crisi di autorità del messaggio educativo e la «crisi di futuro», come carattere che tutto riassume. La realtà di democrazia oligarchica costituitasi nel nostro Paese presenta questo vero e proprio ’buco nero’: il futuro è risorsa scarsa nelle concrete possibilità delle scelte di vita e di lavoro e anche della indignazione delle giovani generazioni. Indignazione che non va ridotta alle pure violenze, pur presenti nelle recenti manifestazioni studentesche. Polemiche e ostilità crescenti sono spia di disagi profondi, in ambienti giovanili che cercano di esprimere visibilmente un senso acuto di esclusione sociale, che è cresciuto in questi ultimi quindici anni. "Cercasi futuro". Ecco la parola chiave per interpretare le generazioni nate attorno agli anni Ottanta. In Italia il volume delle "attese crescenti", che aveva caratterizzato il nostro passato, si sta assottigliando rapidamente ed emergono aspettative di futuro riferite a relazionalità corte di felicità e di affettività. Queste tendenze non sono tanto e solo effetto di crisi economiche, ma di una vasta crisi educativa e antropologica, che coinvolge l’intero continente europeo.
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