venerdì 18 giugno 2021
Parla la biblista e teologa che nei prossimi giorni interverrà al Festival Biblico: «Per uscire dalla pandemia occorre una civiltà della cura»
Noè sovraintende alla costruzione dell'arca (miniatura, XIII secolo)

Noè sovraintende alla costruzione dell'arca (miniatura, XIII secolo) - Londra, British Library

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Teresa Bartolomei sostiene di non essere una biblista e neppure una teologa. «Mi sono interessata alle Scritture grazie ai saggi di Erich Auerbach, Walter Benjamin, Paul Ricoeur – elenca –. Mi considero una lettrice appassionata della Bibbia, come lo sono tante altre persone che magari non appartengono a una tradizione ben definita, ma sanno riconoscere la forza di questa Parola che interroga e che si lascia interrogare». Allieva di Tullio De Mauro, Bartolomei ha messo la sua sensibilità di linguista al servizio di una serie di temi che vanno dalla poesia di Emily Dickinson al legame misconosciuto fra cittadinanza ed ecclesialità. Da tempo si è stabilita in Portogallo, dove svolge attività di ricerca di insegnamento presso l’Università Cattolica di Lisbona. Proprio dalla capitale lusitana si collegherà domenica alle ore 17 per uno degli appuntamenti più attesi del Festival Biblico. A dialogare con lei dai Giardini delle Due Torri di Rovigo ci sarà Enrica Crivellaro, mentre a fornire spunto (e titolo) dell’incontro sarà Dove abita la luce?, il libro che Bartolomei ha pubblicato nel 2019 da Vita e Pensiero. Nella prefazione il cardinale José Tolentino Mendonça giustamente raccomanda di fare conoscenza con questa pensatrice libera, imprevedibile, originalissima. «Ma non io non ho niente da insegnare – si schermisce Bartolomei –, cerco solo di condividere qualcosa del mio percorso».

Nel quale Noè e Giuda sono figure particolarmente importanti: perché proprio loro due?

Perché permettono di affrontare l’enigma del male in una prospettiva diversa da quella di cui solitamente ci accontentiamo. Il male non è un problema di ordine solo morale, è una ferita inferta al cuore stesso della fraternità, un venire meno alla responsabilità nei confronti dell’altro. La prossimità si spezza, il conflitto prevale sul dialogo. Rispetto a tutto questo, il cristiano non è uno spettatore, tanto meno un arbitro che valuta la questione dall’esterno. La ferita, al contrario, riguarda anche il credente, fa parte dell’esperienza stessa della Chiesa. E induce a prendere posizione. Il conflitto esiste, lo sappiamo, il male ci riguarda. Proprio per questo abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno di perdono. Ecco, se si legge con attenzione il racconto del diluvio, ci si rende conto che Dio non agisce affatto come un giudice che, preso dal-l’ira, emetta una sentenza di distruzione. Il suo è un giudizio, sì, ma di salvezza e non di condanna.

La biblista e teologa Teresa Bartolomei

La biblista e teologa Teresa Bartolomei - .

Però alla fine il diluvio si scatena comunque...

No, non alla fine: l’errore consiste nel credere che il conflitto rappre- senti l’ultima istanza. Dio non manca mai di prendere la parola, specie quando la violenza dilaga e l’essere umano, isolandosi dagli altri, diventa un pericolo per sé e per l’intera società. Dio parla, dunque. Sta a ciascuno di noi decidere se prestargli ascolto. Noè non è l’eletto, il predestinato alla salvezza. Più modestamente, è un uomo che ascolta Dio, fidandosi della sua parola e accettando di mettere in opera il suo progetto. La vera natura dell’arca, infatti, non sta nell’essere uno strumento di salvezza per pochi, ma nel fornire un modello di habitat, di convivenza, di fraternità rinnovata con il Creato.

È un mandato che l’evento della pandemia ha reso ancora più urgente, non trova?

Non ci sono dubbi. Basta fare un raffronto con quello che era accaduto all’indomani della crisi economico-finanziaria del 2008. In quell’occasione si predicò la necessità di un’austerità radicale, che in sostanza ribadiva le premesse da cui era discesa la catastrofe. Il problema, come ormai sappiamo, è che il mondo è troppo complesso per essere governato da una sola disciplina, occorre una polifonia di saperi, tutti ugualmente rispettosi l’uno dell’altro. Negli ultimi trent’anni, invece, l’economia si è arrogata un primato che non ha retto alla prova dei fatti. Le azioni che stiamo mettendo in atto per uscire dal dramma collettivo del Covid-19 vanno finalmente in un’altra direzione.

Quale?

Quella della cura, intesa sia come salvaguardia del più fragile, sia come aiuto a chi si trova in difficoltà. Le applicazioni di questo criterio sono numerosissime, vanno dalla rinnovata centralità delle filiere di distribuzione allo sviluppo di una logica non competitiva della delocalizzazione produttiva, per esempio per quanto riguarda la produzione e la disponibilità dei vaccini nel continente africano. Nella sua accezione più compiuta, la cultura della cura è cultura della comunità. In questo senso, non è un mistero che le strutture tradizionali siano da tempo entrate in crisi. Sul piano della quotidianità non riescono più a garantire protezione, su quello simbolico non favoriscono più la trasmissione di valori condivisi. Ne deriva una tendenza alla frammentazione e all’individualismo rispetto alla quale il cristianesimo è chiamato a svolgere una funzione fondamentale in termini non solo di testimonianza, ma anche di intelligenza del reale e di elaborazione di pensiero.

Ed è qui che entra in scena Giuda?

Direi di sì. La sua storia ci ricorda che la fraternità non è qualcosa di innato o di acquisito per sempre. Nella parabola del buon samaritano, del resto, Gesù sottolinea la capacità di farsi prossimo, di prendere l’iniziativa per impedire che l’inerzia abbia il sopravvento. Giuda, con la sua fragilità, è il segno che il cristiano non arretra davanti al mistero del male e, anzi, sceglie di affrontarlo, astenendosi dal giudizio che condanna e lasciando spazio alla dimensione della speranza e del perdono. Quella di Giuda, in fondo, è la tragedia della solitudine. Non va collocata, come ancora si è tentati di fare, nel contesto di una “teologia della maledizione”. Contemplando il destino di Giuda, riusciamo semmai a intuire il motivo per cui, all’atto della creazione, Dio riconosce che l’uomo non può fare a meno della compagnia. Per tutti noi, questa compagnia irrinunciabile si traduce nella custodia del creato e nel servizio ai fratelli. Sono, non per niente, i pilastri dell’insegnamento di Francesco d’Assisi e del pontificato di Francesco. La solitudine è il nostro vero limite, la nostra fragilità più profonda. Ma Dio non ci ha fatti per essere soli, e il nostro desiderio di comunità ne è la dimostrazione più concreta.

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