giovedì 25 giugno 2009
Il sogno di essere «il difensore degli oppressi», sbandierato da Khomeyni trent’anni fa, è degenerato in un regime oppressivo
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Il 2009 è l’anno delle celebrazio­ni per i trent’anni dal ritorno dell’ayatollah Khomeyni in pa­tria e dalla nascita della Repubblica islamica. A dispetto di invasioni, guerre, embarghi, minacce, il siste­ma basato sul coinvolgimento del clero sciita nella gestione diretta del potere, seguendo l’ideologia che l’i­mam della rivoluzione aveva imma­ginato negli anni di esilio e imposto una volta tornato in patria, sembra più forte che mai. Dopo il tentativo di liberalizzazione e democratizza­zione progressiva compiuto dal pre­sidente riformista Mohammad Khatami fra il 1997 e il 2005, la rea­zione degli antiriformisti ha infatti favorito l’avvento di una nuova ge­nerazione di islamisti radicali e di neoconservatori. Ma essi non si so­no limitati a rilanciare gli slogan ti­pici dei primi anni della rivoluzione e gli eccessi di zelo nel controllare la vita privata dei cittadini iraniani (vestiti, feste private, velo non ap­propriato per le ragazze); con il pre­sidente ultra-radicale Mahmud Ah­madinejad è iniziata una vera e pro­pria trasformazione nel tradizionale sistema di potere post-rivoluziona­rio. L’ascesa di pasdaran, funzionari dei servizi di sicurezza, bassij e se­guaci delle scuole religiose conser­vatrici – i quali hanno occupato in massa posizioni di potere nevralgi­che – ha sbilanciato i rapporti di forza tra le varie correnti e fazioni della frammentata élite politica. L’I­ran di oggi è un Paese in cui gli spa­zi di libertà individuali, di espres­sione politica e culturale, di manife­stazione del dissenso sono marcata­mente più ristretti rispetto ad alcu­ni anni fa. Da questo punto di vista, la rivoluzione non ha avuto succes­so: se l’ideologia khomeynista pun­tava a fare di Teheran il difensore «degli oppressi contro gli oppresso­ri » – come ripetuto ossessivamente –, ebbene la realtà è amaramente diversa: oggi il vigente regime è per­cepito come oppressivo dalla mag­gior parte degli iraniani. Solo che questo dissenso non può emergere. E non solo viene percepito come re­pressivo, ma anche come corrotto e inefficiente. Le speranze di ottenere attraverso l’islam la tanto agognata «giustizia sociale» non si sono rea­lizzate: fra la corruzione dilagante, gli sprechi, la precarietà delle con­dizioni economiche di milioni di i­raniani, la mancanza di lavoro, il sottoimpiego intellettuale, gli abusi, le sperequazioni sociali che caratte­rizzavano l’Iran dello scià non sono del tutto svaniti. Certo, non posso­no non essere riconosciuti i pro­gressi fatti dal sistema repubblicano in questi trent’anni: miglioramenti sociali, nel campo dell’istruzione e in particolare di quella superiore, della sanità, del progresso tecnolo­gico. Oppure il fatto che il velo sia stato spesso – soprattutto nei primi anni e negli ambienti periferici – u­na sorta di lasciapassare per l’entra­ta nello spazio pubblico dell’ele­mento femminile, altrimenti esclu­so. Nello stesso tempo si è avuta u­na crescita della società civile e del­la consapevolezza politica dell’esse­re cittadini, così come un avanza­mento di gruppi e ceti sociali forte­mente marginalizzati in una società marcatamente classista come era quella iraniana. Si tratta di migliora­menti ancora più notevoli se si pen­sa a tutte le traversie che il Paese ha dovuto affrontare in questi decenni e alla mancanza di aiuti internazio­nali. Né deve essere dimenticata la crescita del peso geopolitico del Paese: nonostante i velleitari tenta­tivi di 'cambio di regime' e le politi­che di isolamento attuate dagli Stati Uniti dagli anni Ottanta in poi, l’I­ran è un Paese cardine della regio­ne. Anzi, proprio in virtù degli errori delle ultime amministrazioni di Wa­shington, il suo peso geopolitico è andato aumentando, e non dimi­nuendo.A dispetto di sanzioni e minacce, l’Iran è altresì riuscito a portare avanti con successo il pro­prio programma nucleare: ora di­spone di migliaia di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e non si vede come la comunità internazio­nale possa privarlo di questa tecno­logia. La dirigenza iraniana è com­patta nel sostenere la natura esclu­sivamente pacifica di questo pro­gramma e l’assenza di ricadute in campo militare; tuttavia è evidente che Teheran oggi possiede molte delle conoscenze teoriche per arri­vare a realizzare con successo un programma nucleare militare se davvero lo volesse. Anche in questo caso, si tratta di un rafforzamento del peso geopolitico sulla scena in­ternazionale. Eppure, chi conosce – e ama – l’Iran non può non notare lo stridente contrasto fra le aspetta­tive del periodo rivoluzionario e quanto realizzato. La rivoluzione del 1979 fu, come si è visto, un’au­tentica rivoluzione popolare, che vi­de la partecipazione di tutte le op­posizioni al dispotico regime dello scià: dai sostenitori dell’ideologia i­slamista ai comunisti, ai liberali, ai nazionalisti, ai socialisti islamici. Khomeyni e i suoi seguaci furono più abili e capaci, riuscendo a met­tere una parte contro l’altra e finen­do per eliminare ogni altra visione politica. Ma l’avvento del religioso sul politico ha finito per trasformar­si in un boomerang per lo stesso clero sciita e per la religione. Il go­verno diretto del clero si è rivelato un frutto avvelenato, dato che ha svilito il carisma e il prestigio dei re­ligiosi sciiti. La contaminazione del­la religione con le pratiche quoti­diane del governo e dell’ammini­strazione ha finito per danneggiare la religiosità di quel Paese, facendo dell’Iran una società in parte post­islamica.
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