mercoledì 7 novembre 2012
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Orgoglio italiano, patrimonio nazionale, vessillo della nostra cultura nel mondo. L’opera lirica nel nostro paese è definita in un modo che può apparire retorico. Ma con un fondo di verità che si fa amaro se confrontato con lo stato in cui versa: crisi sistemica che si materializza in un saldo negativo in costante crescita, teatri commissariati (cinque solo dal 2005 al 2010), pubblico che fatica a rinnovarsi, ingerenza della politica, programmazione dal respiro corto, scioperi e proteste delle maestranze. Malanni cronici la cui risoluzione si fa ancora più ardua nella congiuntura economica attuale.«Il grande problema dei teatri d’opera italiani è una sostanziale diseconomia di scala – ha spiegato l’economista Alessandro Petretto lunedì scorso al convegno “Teatri d’opera: tra crisi e nuovi modelli di gestione”, organizzato dalla fondazione Cesifin all’interno di Florens, biennale dei beni culturali e ambientali in corso a Firenze – Costano 400 milioni di euro l’anno, il 70% dei quali destinato ai 5600 addetti impiegati, e accumulano un debito sistematico, cosa che non avviene nel resto d’Europa. Gli spettacoli prodotti sono 3.000, ognuno dei quali costa in media 135.000 euro. La diagnosi è costi troppo alti e capacità produttiva sotto utilizzata». Manca, secondo Petretto, un’analisi approfondita della domanda: «I ricavi dal botteghino sono troppo bassi. Questa crisi è irreversibile. Non si può vivere pensando che i fondi pubblici torneranno a crescere. È vero anzi il contrario». Il Fus (il 47% del quale è destinato alla lirica), ad esempio, è passato dai 270 milioni di euro ai 193 del 2012 (a cui si sommano 114 milioni da regioni, province e comuni) e in 10 anni ha perso metà del suo valore reale. «Servono politiche di defiscalizzazione, come il tax credit. Ma i privati devono capire che investire nei teatri porta benefici indiretti. Gli studi sono ormai chiari: ogni euro di spesa nel settore creativo ne produce altri 3».«Costruire su basi più solide la partecipazione dei privati» è uno dei punti dell’intervento inviato da Salvatore Nastasi, direttore generale per lo spettacolo dal vivo del Mibac. «L’opera richiederà sempre l’intervento dello Stato perché il costo del lavoro è inassorbibile dal mercato. Ma cachet artistici stellari e budget insostenibili sono un vero morbo, da mettere sotto controllo. Come? Puntando sulle coproduzioni, a livello regionale, nazionale, internazionale. Innovare politiche di comunicazione e di prezzo. Premiare i teatri che attraggono i contributi dei privati, ai quali però va dato spazio e potere decisionale». Ma Nastasi aggiunge: «Il costo del lavoro è la causa primaria. Ci si scontra con processi di contrattazione collettiva cristallizzati. La revisione del contratto nazionale – fermo da anni nda – è ormai ineludibile. La razionalizzazione gestionale avviene con lentezza a causa di un apparato di regole eccessivamente complesso e di resistenze sindacali rispetto a esigenze di maggiore flessibilità».Un elemento che balza nelle analisi offerte dai relatori stranieri: «L’opera italiana deve aumentare la produttività, ma senza la flessibilità non è possibile» ha sottolineato Nicholas Payne, presidente di Opera Europa, federazione dei teatri lirici europei E aggiunge: «La nostra è una crisi di fiducia prima che economica. I teatri d’opera italiani hanno il vantaggio di essere un forte brand. Hanno bisogno di chi sappia assumersi responsabilità, diventare trasparenti nei conti e di aprirsi a tutti». «L’Italia ha un patrimonio straordinario nei teatri e nelle competenze del suo personale tecnico – ha detto Guy Montavon, sovrintendente a Erfurt e regista in Italia – Ma deve depoliticizzare le sovrintendenze e cambiare a fondo le condizioni lavorative di coro e orchestra».Per Francesca Colombo, a capo del Maggio musicale, «qualità e creatività sono un punto di forza, ma manca un management all’altezza. Occorre sperimentare. A Firenze, con 6 milioni in meno di fondi all’anno, siamo riusciti ad aumentare la produttività. Servono premi a chi è virtuoso». Meno spese e più produzioni hanno consentito a Scala e Santa Cecilia di raggiungere l’autonomia. E se le consuetudini sono un malanno anche per Rosanna Purchia, sovrintendente del San Carlo, «premiare chi sa attirare risorse private significa affondare realtà che vivono già in grossa difficoltà».
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