giovedì 18 maggio 2017
Nel carcere delle Vallette il regista Claudio Montagna guida i suoi speciali attori ispirandosi al Cantico dei Cantici per far loro riscoprire la forza e il senso dell'affettività perduta
Detenuti in scena a metà per diventare un tutt'uno
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«Se sapevo che c’era il teatro non sarei finito qua dentro!». Parola di detenuto. Anzi di due diversi detenuti che a distanza di svariati anni hanno confidato l’importanza cruciale del teatro come deterrente alla chiusura fisica e mentale a una stessa persona: Claudio Montagna, regista che dal 1993 ha a che fare con le pene degli animi, più che con quelle giudiziarie, dei carcerati delle Vallette di Torino (1.400 “ospiti” per 800 posti, tra cui “AS”, alta sicurezza, “sex offenders”, leggi pedofili, e “isolati”), le maneggia con sapiente premura e le sublima in forma artistica. Fa teatro in carcere, si dovrebbe sintetizzare. A vederlo in azione si direbbe piuttosto che porta folate di vita e libertà in carcere. E lo conferma Becky, nigeriana di 34 anni ma che sembra un adolescente nell’aspetto e nello spirito: «Per me fare teatro è una boccata di ossigeno. Anche se sono dentro, mi fa sentire fuori». Comunque noi sapevamo che c’era il teatro nelle Vallette, ora Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, e lì dentro ci siamo finiti, volontariamente, per alcune ore, sinceramente non tanto attratti da un palcoscenico dietro le sbarre (realtà diffusa e da tempo incentivata, da Rebibbia a Roma al carcere di Opera alle porte di Milano, al carcere di Volterra con la Compagnia della Fortezza) quanto colpiti dalla coraggiosa scelta dell’argomento rappresentato: i sentimenti, l’amore di chi vive in reclusione.

Nessuna metafora sull’evasione attraverso il potere immaginifico e catartico del-l’arte, nessuna ars dicendi, casomai ars amandi, non intesa però come arte della seduzione ma come indagine artistica su un tema delicatissimo, quasi un tabù, di certo una croce: come vive, o meglio, come non vive l’amore il prigioniero? Quale valore, ruolo, spazio hanno eros e agape nella vita reclusa e penalizzata dei carcerati? Domande tremende che Claudio Montagna pone con asciuttezza e chiarezza coniugandole con gli affascinanti versi del più sublime dei poemi amorosi della Bibbia. Meditazioni sul Cantico dei Cantici è infatti il sottotitolo di questa messinscena che ha invece un titolo per nulla filosofico ma lapidario, laconico e che in due sillabe scaglia una denuncia, Metà, reso ancora più esplicito dalla citazione di un detenuto anonimo: «Da quando non ci sei, a me non resta altro che la metà di me…».

L’evento, realizzato da Teatro e Società con il sostegno della Compagnia di San Paolo, offerto a 150 spettatori a sera, ha il carattere della straordinarietà. Nulla di eccezionale nella sua fattura scenica e interpretativa, anzi la valenza amatoriale prevale e i sessanta minuti dello spettacolo scorrono un po’ faticosamente e in modo frammentario fra esternazioni liriche attinte al Cantico o estemporanei spaccati sui sogni e le ansie dei reclusi, azioni acrobatiche e visioni simboliche; il tutto intervallato da sporadici interventi di due studentesse di Giurisprudenza che disputano e danno voce alle paure e ai giudizi della società civile, citano articoli dell’ordinamento penitenziario che regolano i colloqui con i detenuti, rammentano che l’Italia, a differenza di 31 Stati sui 47 del Consiglio d’Europa, non consente le visite affettive all’interno della realtà carceraria. Di singolare c’è che per la prima volta otto donne della sezione femminile calcano il palco a fianco di quattordici detenuti. Un motivo di grande emozione anche per Michele, 43 anni, che dal 1992 entra ed esce dai penitenziari e non nasconde la sua gioia: «È bellissimo! Anche mia moglie è detenuta qui, i nostri sguardi si incrociano, ma al di fuori del teatro e dei colloqui non ci possiamo parlare. Comunichiamo solo disegnando le parole con gli accendini di notte e con le lenzuola di giorno».

Di altrettanto unico c’è la decisione di Claudio Montagna di realizzare per la prima volta dopo venticinque anni una rappresentazione esclusivamente ispirata agli affetti coniugali e familiari in carcere: «Mi ci è voluto quasi un quarto di secolo – confessa il regista – per maturare questa scelta; l’argomento scatenava sempre reazioni emotivamente forti e spesso incontrollabili, ma poi ho capito che non potevo più eludere la questione: le relazioni affettive sono un alimento per noi e se non ci si nutre di questo cibo ci si dimezza. Il carcere ti fa perdere l’altra metà e restituisce alla società persone dimezzate». Montagna, che dal 1993, quando le carceri pullulavano di detenuti con l’Aids che avevano una condanna penale superiore alla sentenza del medico, di sofferenze ne ha viste tante «tra suicidi e gente che non vedeva l’ora di uscire e poi tornava perché non trovava più la famiglia o da mangiare» e sa bene di non poter dare risposte col suo spettacolo. Spera piuttosto nel valore della condivisione fra palco e platea e nella possibilità che nelle coscienze dei cittadini liberi faccia breccia l’invito accorato che i suoi detenuti-attori dalla scena lanciano in uno dei momenti più toccanti della serata: «Che la vostra presenza ci dia sollievo e dignità… Fateci riscoprire che siamo una cosa sola: voi e noi».

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