sabato 6 settembre 2014
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«One centimeter from glory», ovvero «A un centimetro dalla gloria». La gloria agognata di una partita vinta contro il Brasile, e di un Mondiale magari ribaltato, se invece della traversa a pochi istanti dalla fine il pallone avesse centrato la rete. Il gol invece non c’è stato; errori così restano nella storia del pallone ed è difficile cancellarli dalla memoria dei protagonisti. Ma Mauricio Pinilla, attaccante del Cile, ha voluto fare di più: quel gol clamorosamente mancato ha voluto inciderselo sulla carne e renderlo indelebile. Un tatuaggio per non dimenticare, un fotogramma con didascalia a futura memoria. Del resto una gloria inseguita e mancata per un amaro destino è pur sempre una ferita gloriosa. Lì, sulla pelle, tessitura simbolica della vita, libro aperto sulla propria visione del mondo, come quella ostentata a fior di pelle da un’altra star del dopo Mondiali: Tom Howard portiere americano dal caratterino non facile, ma dal fisico bestiale, finito con il suo torso nudo ipertatuato sulla copertina di una rivista Usa per pubblicitari, incoronato dal titolone "Hero". Eroe. Corteggiato uomo-immagine dai brand più prestigiosi, Howard è uno dei tanti testimonial della Peta. Contro le pellicce con lo slogan "Ink not Mink" sfoggia un corpo guerriero, modellato come un’armatura, istoriato con un intreccio di tatuaggi sorprendente. Icona di una bellezza lavorata, forgiata non solo nei muscoli ma anche nei segni, a ribadire un’identità eroica forte, l’immagine di Howard è solo apparentemente lontana da quella di Pinilla. Entrambi rappresentano la nuova frontiera dei tatuaggi, spogliati di ogni vissuto di trasgressione e ribellione e diventati attributi di una soggettività da raccontare, fatta di emozioni e sentimenti, gioco estetico di segni e ghirigori che ornano e completano l’aspetto fisico, alla stregua di un abito o di un make-up. Ma rischia di essere solo una moda?Mongolfiere, fari, stelline, cuori specchiati, teschi e ghirigori di parole si ostentano con naturalezza su spalle e decolleté, gambe e bicipiti: l’estate con le sue nudità li porta allo scoperto, palesando la trasformazione in oggetto di consumo di massa di quello che è stato per secoli un marchio maledetto. Ovvero, come racconta Alessandra Castellani, antropologa, studiosa di culture e mode giovanili, docente all’Accademia di Belle Arti di Napoli, nel suo saggio appena pubblicato da Donzelli, Storia sociale dei tatuaggi (pagine 150; 22 euro) «il segno di Caino, primo tatuato della storia, lo stigma degli schiavi, le cui ferite denunciavano la condizione bestiale, marginale e reietta dell’essere proprietà di un padrone». Una pratica barbara, il tatuaggio, da nemici e selvaggi: ai confini dell’impero i Pitti e i Germani sbucavano dalle foreste orribilmente dipinti e tatuati terrorizzando le truppe romane. «La moda – spiega Alessandra Castellani – ha sdoganato quello che per secoli ha rappresentato lo stigma della gente sbagliata. I perdenti, i selvaggi, i criminali e la cultura ribelle. Sulla scia delle infinite possibilità più o meno chirurgiche di modificare e personalizzare il corpo, non più un destino immutabile per la vita, il tatuaggio è diventato un segno normale, dominante e di tendenza. Privato di quella riprovazione sociale che fin dall’antichità lo ha accompagnato. Anche nel mondo cristiano, poi, il corpo fatto a immagine e somiglianza di Dio nel corso dei secoli non andava violato inutilmente. Ma ancor prima, nel mondo ellenico e romano, verità e bellezza sono nude, mai velate o mascherate, tantomeno deturpate da segni indelebili». Il vero incontro con segni poco praticati in Occidente avviene con i resoconti delle prime spedizioni nel Sud est asiatico che offrono al Vecchio continente una raffigurazione esotica di un mondo altro, affascinante, ma anche estraneo e inquietante. Selvaggio. Tatuaggio fu la parola adottata, perché tau-tau (così lo descrisse James Cook nel 1771) era il rumore prodotto dal ticchettio di uno strumento che incideva la carne. Spaventoso, orribili visu, fu l’incontro con i bellicosi guerrieri maori della Nuova Zelanda, con il corpo e anche il volto tatuati, il cosiddetto moko che segue le linee della muscolatura. Accomunare negativamente il segno aberrante dei selvaggi repellenti e lontani alle bizzarrie da baraccone o ai tatuaggi dei diseredati marginali di casa nostra, alla pazzia e al malaffare, apparve scientificamente logico sotto l’onda del positivismo. «Anche per questo – continua l’antropologa – il tatuaggio è stato apprezzato come forma simbolica di ribellione giovanile a partire dalla metà degli anni settanta dai punk che lo hanno eletto a segno autoinflitto riprovevole, che maledice il corpo e ne ribadisce il carattere costruito e inautentico». E qui viene vampirizzato dalla moda che nel suo eterno fluire, inglobare e riproporre stili nati in altri contesti e con altre motivazioni, un passo dopo l’altro ne ha fatto oggi un codice prettamente decorativo, estetico. «Del resto – conclude Alessandra Castellani – la pelle partecipa consistentemente nella definizione dell’identità e il tatuaggio così oggi finisce per funzionare, per coloro che se lo incidono, nel rendere palese una riflessione su se stessi, ciò che si è e si vuole essere, al punto che spesso il corpo nudo è considerato meno autentico e veritiero. Oggi il tatuaggio è un segno scontato, che rientra nell’orizzonte della maggioranza. Si sceglie e si può fare senza tabù, anatemi e remore. Tutt’al più si cancella, si sovrascrive o si copre con un make up studiato appositamente. E si fa semplicemente perché raccontarsi e trasformarsi piace, fa un po’ speciali, unici. Magari anche più giovani. Ma simbolicamente e visivamente sulla pelle i tatuaggi appaiono come uno specchio di vita, segni che rimandano più o meno pubblicamente a sensazioni e pezzi di vita che si vogliono raccontare e ricordare. Amori passati e presenti, cambiamenti sofferti, eventi felici e non, un mondo di emozioni che i disegni old school della tradizione marinara americana oggi molto in voga, rappresentano in modo chiaro, semplice e neoromantico». Una specie di evoluzione delle emoticons sul corpo, diventato una sorta di rete che fa affiorare e connettere scelte ed esperienze di un nuovo esercito barbaro, ma sentimentale.
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