giovedì 1 giugno 2017
Ovazioni a Monaco di Baviera per il nuovo direttore dei Berliner che salva il dramma wagneriano dal flop della regia di Romeo Castellucci. Cast di star: i migliori del momento
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«Nach Rom» (“A Roma”) sprona alla fine del secondo atto di Tannhäuser il popolo di Turingia annunciando il pellegrinaggio che dovrebbe salvare l’anima all’irrequieto cantore. «Nach München» (“A Monaco”) verrebbe da dire ai devoti di Richard Wagner che desiderano ascoltare il Re Mida del podio: Kirill Petrenko. Schivo di carattere, restio alle interviste, con sporadiche registrazioni di cd e dvd nel suo curriculum, il direttore d’orchestra “rivelazione” degli ultimi anni che guiderà la Berliner Philharmoniker può essere incontrato in poche occasioni: lo scorso marzo ha, sì, debuttato nella capitale tedesca come timoniere dei Berliner in un concerto nel segno della Haffner di Mozart e della Patetica di Ciajkovskij che poi ha condotto anche in trasferta a Baden-Baden durante il Festival di Pasqua. Ma per adesso la sua “casa” resta il Bayerische Staatsoper, il tempio della lirica del capoluogo bavarese di cui è direttore stabile fino al 2020. E a Monaco bisogna andare per immergersi nelle esecuzioni del 45enne maestro d’origine russa che, dopo ogni sua performance, fa venire in mente il re della Frigia entrato nell’immaginario collettivo per il suo “tocco d’oro”. Perché Petrenko riesce a far risplendere qualsiasi partitura abbia di fronte, a cominciare da quelle di Wagner che ama particolarmente. E in alcuni casi a salvare gli allestimenti d’opera che senza il suo tocco sarebbero destinati a essere sommersi dai fischi per regie e impostazioni controverse.


Era successo a Bayreuth nel 2013 con il Ring del bicentenario wagneriano affidato proprio al “sommo sacerdote” di Omsk e finito nel mirino del pubblico e della critica per la contestata trasposizione del regista berlinese Frank Castorf che aveva ambientato le quattro opere della Tetralogia fra distributori di benzina, pozzi di petrolio, industrie chimiche e Wall Street. Accade di nuovo a Monaco con Tannhäuser (in scena fino al 28 settembre) “narrato” dall’italiano Romeo Castellucci, da sempre regista provocatorio, non banale, dalle idee mai scontate. Tuttavia ciò che si vede allo Staatsoper ha ben poco di ribelle o acuto: è noioso, cervellotico, persino inutile. Tanto che il pubblico tedesco, di per sé avvezzo a produzioni alternative o d’avanguardia, boccia a furor di popolo il percorso mentale di Castellucci.


Un Tannhäuser flop? Macché. A redimere l’allestimento bavarese è Petrenko, un po’ come Elisabeth che con la sua morte d’amore riscatta il peccatore caro all’epica germanica. Mai prima d’ora la bacchetta russo-tedesca si era cimentata nel complesso titolo wagneriano, tutt’altro che facile da dirigere, visto che il genio romantico ne aveva rimaneggiato più volte lo spartito. Petrenko sceglie un approccio malinconico, a tratti cupo, quasi a voler esaltare il contrasto interiore del cantore combattuto fra l’amore nobile e l’eros carnale. Con una precisione certosina che emerge nella padronanza di ogni difficoltà tecnica, esalta i passaggi più scuri scommettendo soprattutto sui contrabbassi. La lettura che dà di Wagner è fresca, antiretorica, marcata dalla pienezza del suono. Il che non significa tradire l’impostazione del compositore, ma attualizzarla, renderla contemporanea. È soprattutto nel terzo atto che Petrenko impressiona: dal coro dei pellegrini al mesto canto di Wolfram fino all’apoteosi delle ultime battute proposte come anelito di speranza (benché Castellucci mostri tutt’altro sul palcoscenico). Il risultato è frutto di quattro elementi: il lavoro di un direttore-operaio, si potrebbe affermare; un’orchestra calibrata fin nei dettagli; prove su prove; e un cast che non è eccessivo definire come il migliore oggi a disposizione per questo dramma.


Tannhäuser è Klaus Florian Vogt, osannato tenore tedesco – anche lui al debutto nel ruolo – che conquista Monaco con la grazia del suo timbro e la dolente intensità di un’interpretazione coinvolgente; Elisabeth è la beniamina Anja Harteros che dà alla nipote del Langravio un tratto sognante e al tempo stesso afflitto grazie alle scelte di colore che imprime alla voce, come testimonia la sua “preghiera”; Venere è la “gigante” Elena Pankratova, vibrante e tagliente; poi spiccano il commovente e combattuto Wolfram del monumentale Christian Gerhaher e il suggestivo Langravio di uno dei più apprezzati bassi wagneriani del momento, Georg Zeppenfeld. Quindici minuti di applausi al termine con il pubblico in piedi. E a ragion veduta.


Sarebbe una produzione da annali se Castellucci non optasse per un’impostazione «senza tempo e senza spazio», come ha spiegato. Fin dall’inizio si capisce che non tutto quadra. L’ouverture è funestata dal rumore continuo del lancio di frecce contro un occhio e un orecchio che coinvolge una trentina di amazzoni. Scena tanto suggestiva da vedere quanto tormentata da decifrare (per di più dimostra una mancanza di rispetto per l’ascoltatore) se non si sa che il regista originario di Cesena sceglie la freccia come emblema dell’opera ricavandola dall’arpa evocata nel dramma ma anche dal simbolo di un amore forzato. Poi cita addirittura la saga di Guerre stellari per rimodellare Venere che diventa simile a Jabba the Hutt, l’inguardabile extraterrestre antropomorfo che richiama la lussuria. E il suo monte, il Venusberg, sembra in gomma da masticare con corpi sfaldati (probabilmente dalle pulsioni della carne). Il ritorno di Tannhäuser nel mondo è evocato da un alce abbattuto, espediente per sancire il rito di fratellanza fra i cantori imbrattati di sangue.


Nel secondo atto il castello della Wartburg si trasforma in un turbinio di tende bianche. Perché, secondo Castellucci, Tannhäuser ed Elisabeth sono destinati a non incontrarsi. Ma la trovata dei veli stanca, così come il podio in stile “talent show” nella tenzone sull’amore. E il palcoscenico si riempie anche di calchi di piedi: forse a richiamare i pellegrini diretti dal Papa. Certo, i riferimenti religiosi sono pressoché assenti nonostante il sacro segni l’opera. L’unico cenno è il piedistallo con il nome di “Maria” davanti a cui Elisabeth si inginocchia all’inizio del terzo atto. Che in gran parte si svolge intorno a due altari dove si decompongono i corpi degli “amati” (con i nomi – chissà perché? – degli interpreti principali: Klaus e Anja). Alla fine i cadaveri saranno ridotti a polvere che si mescola mentre la musica sfuma. È soltanto la morte che unisce Tannhäuser e la donna che per lui si sacrifica, lascia intendere il regista romagnolo. Non così nel capolavoro di Wagner che vede nell’agape – sublimata dal dono totale di sé – la via della redenzione.




Monaco sfida Bayreuth


Non è un segreto che Kirill Petrenko, appassionato direttore delle partiture di Wagner, abbia rotto con il Festival wagneriano di Bayreuth dove aveva condotto il Ring del bicentenario fra il 2013 e il 2015. E adesso dallo Staatsoper di Monaco sembra quasi sfidare la celebre rassegna. Dopo Tannhäuser di questi mesi, sono in programma il prossimo anno altre due produzioni da primato dirette sempre da Petrenko: Parsifal in scena al 28 giugno al 31 luglio (con Jonas Kaufmann, René Pape e Nina Stemme) e tutta la Tetralogia che verrà proposta tre volte. Le prime due fra gennaio e febbraio con Nina Stemme (Brunilde), Stefan Vinke (Sigfrido), Anja Kampe (Sieglinde); l’ultimo ciclo a fine luglio, in contemporanea con l’apertura di Bayreuth, che includerà anche il famoso tenore Kaufmann (Siegmund).

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